Napoli, Castel Sant’Elmo – Foto: Giorgio Manusakis

Con un’insurrezione avvenuta nel 1547, che vide uniti nobiltà e ceti popolari, la città di Napoli impedì l’istituzione di un Tribunale della Santa Inquisizione.

In un quadro di diffuso controllo e di lotta alle eresie, e non solo, da parte della Chiesa, spicca la particolare storia di resistenza civile dei napoletani per impedire l’introduzione di un Tribunale del Santo Uffizio da parte del viceré spagnolo Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga a cavallo della metà del XVI secolo.

Sulla Santa Inquisizione e i suoi tribunali si è scritto molto. Per diversi storici tale istituzione sarebbe stata la principale responsabile della decadenza della cultura italiana nel Seicento; basta pensare, infatti, ad alcune delle sue vittime più illustri, come Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Galileo Galilei, giustiziati, incarcerati per decenni o costretti ad abiurare per aver espresso un libero pensiero e aver ‘guardato avanti’. L’Inquisizione fu considerata dalla Chiesa un baluardo a difesa della dottrina, ma fu anche lo strumento per controllare l’opinione pubblica per evitare che il popolo uscisse fuori dai suoi canoni, perseguendo, magari, idee riformiste propugnate da letterati, filosofi o scienziati illuminati, considerati una minaccia anche dal punto di vista politico ed economico. Peraltro i suoi tribunali furono il mezzo, come vedremo, di cui usufruì anche il potere politico dei regnanti per spegnere i focolai di malcontento dei sudditi.

La storia dei tribunali ecclesiastici e del Santo Uffizio

La lotta alle eterodossie (intese come “dottrina che si oppone immediatamente, direttamente e contraddittoriamente alla verità rivelata da Dio e proposta autenticamente come tale dalla Chiesa”, secondo la definizione data da San Tommaso d’Aquino e formulata dai teologi) è molto lontana nel tempo, risalendo già al IV secolo, quando per estirparle la Chiesa non ha esitato a trucidare persone che professavano fedi diverse, primi fra tutti i giudeo-cristiani.

L’Inquisizione, intesa come autorità preposta alla ricerca e al giudizio degli eretici, risale però – contrariamente a quanto pensano tanti – alla seconda metà del XII secolo, ed esattamente al 1179, quando venne ratificato da papa Alessandro III il Concilio Lateranense III. Il canone 27 si occupava esplicitamente della repressione degli Albigesi, seguaci dell’eresia catara, che non riconoscevano il Papa e la Curia, sostenendo di essere gli unici eredi degli Apostoli. Il compito di stanare e perseguire gli eretici venne inizialmente affidato ai vescovi. Con papa Gregorio IX (siamo nel 1231) fanno la loro comparsa i giudici nominati dal pontefice, scelti soprattutto tra i frati domenicani, i quali si sostituirono ai suddetti presuli, perché ritenuti poco efficaci nella loro azione. Prima di procedere contro gli accusati venivano emanati due editti: uno “di fede”, che imponeva la denuncia degli eretici, e l’altro detto “di grazia”, che stabiliva il perdono dell’imputato che si fosse presentato spontaneamente entro un mese. Invero il fenomeno della crociata contro i catari si esaurì agli inizi del Trecento e con esso, di fatto, anche il funzionamento primario degli inquisitori del periodo medievale.

Giovan Battista Crespi detto ‘il cerano’ – Strage degli albigesi (1628-32) – Licenza: CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons

L’Inquisizione spagnola e portoghese                           

La lotta serrata alle eresie riprende vigore nella seconda metà del ‘400, in Spagna, con il matrimonio tra Ferdinando di Aragona e Isabella di Castiglia (1477), i quali, volendo imporre l’uniformità religiosa del territorio, chiesero e ottennero dal papa Sisto IV l’istituzione di un inquisitore di fiducia per perseguire coloro che erano sospettati di non professare il cattolicesimo. Nel paese il compito principale dell’Inquisizione fu quello di vigilare sulla effettiva conversione dei marrani (ebrei o mussulmani che si erano convertiti per non lasciare la Spagna), estendendosi, poi, a tutto il regno (con una prevalente ‘caccia alle streghe’), ad eccezione di Milano e Napoli, come meglio vedremo. L’Inquisizione spagnola fu definitivamente abolita con un Regio Decreto firmato dalla reggente Maria Cristina delle Due Sicilie, vedova liberale di Ferdinando VII, il 15 luglio 1834. Celeberrima è rimasta la figura del frate domenicano Tomás de Torquemada, primo e implacabile inquisitore generale, che nel 1483 diede il via a quello che più correttamente viene definito El Santo Oficio.

Sulla falsariga di quanto accaduto in Spagna, anche il Portogallo portò avanti una feroce repressione contro gli eretici, o meglio contro gli ebrei e coloro che non vollero convertirsi al cattolicesimo, istituendo, nel 1536, con il beneplacito dal papa Paolo III, uno tra i più violenti organi di controllo ecclesiastici, che durò quasi tre secoli (fu abolito dalle Corti Generali nel 1821). Si stima che i tribunali della Santa Inquisição abbiano bruciato vive circa 2500 persone, condannandone molte altre a pene diverse. Da qui partivano gli autodafé, processioni in cui i condannati al rogo sfilavano sotto gli occhi del popolo, diretti verso il luogo dove sarebbero stati atrocemente giustiziati (dopo il trasferimento a Lisbona il luogo dell’esecuzione era il Torreiro do Paco – letteralmente “cortile” o anche “terreno del palazzo” – che era antistante il palazzo reale). 

Sigilli utilizzati dall’Inquisizione spagnola e portoghese – Licenza: pubblico dominio e CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons

In entrambi i paesi, dunque, l’Inquisizione fu il mezzo per intervenire non solo nell’ambito della fede religiosa, ma anche della cultura, dei costumi, della società in generale. Così la competenza dei tribunali ecclesiastici si estese a tutte quelle condotte considerate portatrici di eresie e ‘devianze’, portando alla censura sui libri, nonché alla persecuzione di atei, presunte streghe, omosessuali e bigami precedentemente processati dai tribunali civili.

L’Inquisizione romana

Nel quadro generale della Controriforma in atto contro il dilagare della riforma protestante, nonché per arginare l’Inquisizione spagnola e portoghese che operavano indipendentemente dalla Santa Sede, anche se con figure approvate da essa, Paolo III istituì l’Inquisizione romana (o Sant’Uffizio) il 21 luglio 1542 con la bolla Licet ab initio. Nacque in tal modo la Sacra congregatio Romanae et universalis inquisitionis seu Sancti officii (poi congregazione del sant’Officio), un tribunale permanente composto da sei cardinali (chiamati Inquisitori generali) e prelati, presieduto da un ecclesiastico nominato dal pontefice, al quale fu affidato il compito di mantenere e difendere l’integrità della fede, di esaminare e proscrivere gli errori e le false dottrine.

L’Inquisizione romana era strutturata con una diffusa rete di tribunali locali, affidati a un vicario inquisitoriale, coadiuvato perlopiù da religiosi appartenenti agli ordini mendicanti dei domenicani e dei francescani, che dovevano agire in collaborazione con i vescovi. Tale gerarchia si mosse subito in questa direzione e già nel 1559 fu creato l’Index librorum prohibitorum (l’Indice dei libri proibiti), nel quale sono entrati, nel corso del tempo, scrittori, scienziati e filosofi (come Dante Alighieri col De Monarchia; Guglielmo di Ockham con l’Opera omnia; Niccolò Machiavelli con l’Opera omnia; Giovanni Boccaccio col Decamerone; e poi Thomas Hobbes, Victor Hugo, Immanuel Kant, Giordano Bruno, Benedetto Croce, Giacomo Leopardi e molti altri importanti nomi noti). Il documento, pur rimanendo moralmente impegnativo, perse il suo valore giuridico il 14 giugno 1966 su iniziativa di papa Paolo VI nell’ambito della generale riforma connessa al Concilio Vaticano II.

Verso la fine del XVI secolo l’Inquisizione iniziò a perseguire sempre meno le eresie in senso stretto e sempre più, invece, la magia e la stregoneria, che così divennero i reati predominanti, anche se l’azione repressiva fu meno feroce della ‘caccia alle streghe’ dei tribunali statali dei regni cattolici e di quelli protestanti.

Nei secoli che seguirono la pressione dei tribunali ecclesiastici si attenuò progressivamente e già nel corso del 1600 vi fu una drastica riduzione dei procedimenti inquisitori. È stato stimato che i processi dell’Inquisizione romana portarono nel tempo alla condanna a morte da 1.200 a 2.000 persone circa (l’ultima sentenza capitale è del 1761 a Roma).

Con il motu proprio Integrae servandae del 7 dicembre 1965 la congregazione del sant’Officio viene denominata Congregazione per la Dottrina della Fede e successivamente, nel 2022, su iniziativa di papa Francesco, assume la denominazione di Dicastero per la Dottrina della fede.

Tiziano Vecellio – Ritratto di papa Paolo III a capo scoperto (1543 ca.) – Napoli, Museo di Capodimonte – Foto: Giorgio Manusakis

La storica opposizione di Napoli contro l’Inquisizione

Il viceregno di Napoli, come tutti gli altri territori del reame spagnolo, era anch’esso destinato a subire l’istituzione di un tribunale del Santo Ufficio da Madrid. Se ciò accadde senza colpo ferire in Sicilia, dove già nel 1487 il re inviò un inquisitore delegato che dipendeva direttamente dalla Corona e che operava in assoluta autonomia dalla Santa Sede di Roma (che aveva, comunque, già in loco inquisitori apostolici delegati), la stessa cosa non avvenne a Napoli.

Un primo tentativo di introdurre l’Inquisizione spagnola, durante il regno di Ferdinando il Cattolico, risale al 1510, sotto il governo vicereale di Raimondo di Cardona. Napoli si trovò così in presenza di tre organi competenti in materia: quello controllato dalla Curia vescovile; quello delegato da Roma (con il consenso del re di Spagna) e quello che, se necessario, veniva nominato all’uopo (poteva essere anche un ufficiale laico). I seggi di Napoli, attraverso una delegazione capeggiata da Francesco Filomarino, manifestarono al re l’assoluto malumore della cittadinanza e ottennero un editto che stabiliva l’immediata abolizione dei tribunali inquisitori: “en que se mandasse que haviendo conocido el Rej la antiquata observancia, y religion de a quella Cividad y de todo el Rejno, y el zelo, que tenian en la Santa Fè Cattolica havia proveido que la Inquisition se quietasse par el sossiego y bien universal de todos y con esso se sue appasignando à quella alteration” (“nel quale si ordinava che il Re, avendo appreso dell’antica osservanza e religione di quella Città e dell’intero Regno, e dello zelo che avevano per la Santa Fede Cattolica, avesse ordinato che l’Inquisizione fosse ritirata per la pace e il bene universale di tutti, e con ciò, veniva assegnata a tale modifica”).

Nel 1532, per far fronte alle difficoltà che Napoli stava vivendo, essendo uscita da poco dalla tremenda epidemia di peste del 1529 che aveva falcidiato la popolazione –  peraltro anche vittima delle continue incursioni piratesche che saccheggiavano sistematicamente le zone circostanti – Carlo V (re di Spagna, II d’Ungheria e IV di Napoli, imperatore del Sacro romano impero) inviò Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga in qualità di viceré. La sua guida dal pugno duro, che in pochi anni diede alla città un nuovo assetto urbanistico con la creazione di una nuova fortezza e diverse nuove vie (si ricordano, ad esempio, la ricostruzione del Belforte, che poi assunse il nome di Castel Sant’Elmo, e la realizzazione di importanti strade come via Toledo), non incontrò mai il favore del popolo e soprattutto dei baroni, con i quali entrò subito in contrasto per la sua intenzione di combattere i privilegi di cui godevano. Un rapporto difficile che indusse il governo vicereale a pensare, nonostante il tentativo fallito qualche decennio prima, di servirsi di un organo repressivo quale era il Tribunale del Santo Ufficio, spalleggiato dalle autorità religiose, per quanto a Napoli fosse operativo, come in ogni altro paese cattolico, un distaccamento della Santa Inquisizione.

Tiziano Vecellio – Ritratto di Carlo V (1549) – Napoli, Museo di Capodimonte – Foto: Giorgio Manusakis

La sponda per l’iniziativa fu offerta a Pedro de Toledo dalla presenza in città di Giovanni de Valdés (letterato e teologo spagnolo), trasferitosi a Napoli proprio per evitare l’Inquisizione spagnola a cagione delle sue idee (in seguito alla condanna del suo Diálogo de doctrina cristiana). Invero, nel periodo in questione, vi fu un vero fermento culturale e nei salotti napoletani si discuteva di Erasmo e del pensiero dei più illuminati scrittori cattolici. Valdes, sebbene non avesse accettato la dottrina luterana, nei suoi incontri con elementi della colta nobiltà napoletana e con i letterati, all’interno della sua villa alla Riviera di Chiaia, non fu parco di critiche nei confronti della mentalità retrograda della Napoli del Cinquecento, ancora troppo vicina ad una interpretazione della vita religiosa che non riteneva al passo con i tempi. Tutto ciò venne visto dal viceré come un pericolo, non solo per la religione cristiana, ma anche per la stessa autorità politica. Pertanto egli chiese l’intervento di Carlo V che, con l’editto del 4 febbraio 1536, lanciò un segnale chiaro: la confisca dei beni per coloro che frequentassero o commerciassero con persona “infetta d’eresia”.

La misura non frenò i movimenti e dopo dieci anni Pedro de Toledo si determinò a chiedere al Papa, con l’autorizzazione dell’imperatore e aiutato dal fratello Giovanni (membro influente della Inquisizione romana), l’invio di un Commissario per procedere soprattutto contro clerici claustrali e secolari. Il provvedimento papale del febbraio del 1547, che prevedeva l’istituzione di un Tribunale del Santo Ufficio nel viceregno, provocò la reazione violenta del popolo e dei nobili di Napoli, che non vollero sottomettersi all’istituzione di un organo ritenuto meramente strumentale al consolidamento del potere del vicerè, la cui intenzione, come evidenziato anche da Camillo Porzio (storico napoletano del 1600), era quella di “spogliare il regno di ogni forma d’antica libertà municipale e di ogni autonomia baronale”.

Ignoto – Ritratto di don Pedro de Toledo, copia del XVII sec. di un originale del XVI – Napoli, Museo Nazionale di San Martino – Licenza: CC BY-SA 3.0 via Wikimedia Commons

Le prime voci di dissenso provennero da Giovanni Pietro Carafa (futuro papa Paolo IV), all’epoca arcivescovo di Chieti, rampollo di una nobile e antica famiglia napoletana. Questi divenne uno strenuo difensore dell’ortodossia cattolica e, pur sostenendo l’Inquisizione romana (di cui fu uno degli ispiratori), fu un forte oppositore di Carlo V e del ‘modello spagnolo’.  In una sua lettera del gennaio 1547 (conservata nell’Archivio Apostolico Vaticano, un tempo Archivio Segreto Vaticano), scrisse: “L’Inquisizione, sì come la intendono in Ispagna, è uno strumento di dominio più che di fede; essa non giova alla Chiesa, ma serve alla ragion di Stato.”

La nobiltà si mobilitò e le famiglie più importanti (Carafa, Pignatelli, Sanseverino e Capece) si opposero apertamente al provvedimento, in quanto la giurisdizione ecclesiastica avrebbe sottratto loro poteri sulle proprie terre grazie allo strumento della confisca ampiamente utilizzato. Parallelamente il popolo si sollevò, spinto dalle voci sul terrore inquisitoriale e dal timore di arresti arbitrari, torture, censure. Significative sono le cronache riportate nei Giornali di Domenico Antonio Parrino (Napoli, XVII secolo) nei quali si legge: “Il popolo, udita la novella della Santa Inquisizione, corse alle strade gridando contro il Viceré, ed i nobili non furono da meno nel fomentare l’indignazione.” I seggi, dopo una seduta parlamentare straordinaria, nominarono una commissione, guidata da Antonio Grisone, che incontrò Pedro de Toledo a Pozzuoli per convincerlo a fare marcia indietro, ottenendo da questi l’impegno a fare il possibile per la revoca.

Napoli, Reale Pontificia Basilica di San Giacomo degli Spagnoli – Il monumento funebre di don Pedro Álvarez de Toledo – Foto: Matilde di Muro

Ben presto però – siamo nel luglio del 1547 – le tensioni e le scaramucce dei mesi precedenti si trasformarono in una rivolta armata e si verificarono manifestazioni, assalti simbolici, barricate e atti di resistenza contro le autorità vicereali, contro le quali si erano schierati tutti, indistintamente, soprattutto per motivi politici. Lo stesso de Toledo, consapevole dei veri motivi della rivolta, in una missiva inviata a Carlo V e conservata nell’Archivio de Simancas, a Madrid, definì l’insurrezione “un moto non religioso, ma politico, e fomentato da chi non tollera il giogo regio”.

Inizialmente il viceré non tollerò la reazione, reprimendo con grande fermezza i tumulti e arrestando alcuni nobili, ritenuti capi della rivolta. Dopo tre giorni di violenti scontri, che provocarono circa 2000 vittime, Pedro de Toledo, resosi conto delle difficoltà di gestire, anche con la forza, un ordine pubblico fuori controllo, su indicazioni dell’imperatore asburgico, negoziò con i rivoltosi e sospese l’istituzione di un Tribunale dell’Inquisizione a Napoli, confermando la promessa a suo tempo fatta da re Ferdinando il Cattolico. Per stemperare ulteriormente la tensione furono attenuate, sia pure provvisoriamente, la pressione fiscale e quella giudiziaria e ciò diede ai rivoltosi l’impressione di aver vinto la propria battaglia, soprattutto politica più che religiosa.

Di fatto, però, il viceré, longa manus di re Carlo, forte dell’editto del 1536, continuerà a governare Napoli e a confiscare beni, destando grande preoccupazione di ritorsioni. I timori erano fondati e il suo governo vicereale, tra rivolte armate e carcerazioni, proseguì in modo tormentato fino al 1552, quando morì durante una missione a Siena, dove era stato inviato dall’imperatore per fermare una rivolta. Certamente si trattò di uno scontro che precorse i conflitti futuri tra Napoli e Madrid e che, storicamente, rimane centrale per comprendere la complessità del dominio spagnolo nell’Italia Meridionale.

La rivolta del 1547 come emblema di identità e sete di libertà  

Fu questa una rivolta breve ma intensa, che segnò una svolta nella politica vicereale e rappresentò un momento cruciale di affermazione delle autonomie locali contro l’assolutismo imperiale. Inoltre, la reazione dei nobili e del popolo fu una delle rare occasioni in cui ceti sociali tanto distanti agirono coesi per difendere diritti e libertà minacciati da un potere estraneo e oppressivo. Secondo Benedetto Croce: “questa fu la prima grande resistenza napoletana contro il centralismo spagnolo, esempio di come le autonomie locali potessero ancora influenzare la politica imperiale» (Storia del Regno di Napoli, 1925). Anche per lo storico Giuseppe Galasso, nel suo libro Il Regno di Napoli del 1992, la rivolta fu “una manifestazione di identità e coesione civica, dove la nobiltà trovò nel popolo un alleato inatteso contro un nemico comune”. Il significato di quegli eventi è sintetizzato nella lapide commemorativa posta, nel 1871, all’ingresso della Certosa di S. Martino a Napoli dove si legge: “Ai popolani di Napoli che nelle tre oneste giornate del luglio MDXLVII, laceri, male armati e soli d’Italia francamente pugnando nelle vie, dalle case contro le migliori armate d’Europa tennero da sé lontano l’obbrobrio della Inquisizione Spagnola imposta da un imperatore fiammingo e da un papa italiano e provarono anche una volta che il servaggio è male volontario di popolo ed è colpa dei servi  più che dé padroni“. Un messaggio che enfatizza un sentimento di orgoglio e resistenza del popolo napoletano, che volle ribellarsi al più forte per non subirne i soprusi, come avvenne in diverse altre occasioni, tra cui, da ultimo, le giornate dal 27 al 30 settembre 1943.

Napoli, Certosa di San Martino – La lapide commemorativa – Foto: Giorgio Manusakis

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Titolo: Giovan Battista Crespi detto il cerano, Strage degli Albigesi, 1628-32
Autore: Giovanni Battista Crespi
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Titolo: Inquisición española
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Titolo: Selo utilizado pela Inquisição Portuguesa
Autore: Eiiaeo
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Titolo: Ignoto, ritratto di don Pedro de Toledo, copia del XVII sec. di un originale del XVI
Autore: Museo Nazionale di San Martino
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