Sala Lucio Amelio – Foto: Matilde Di Muro

Nella collezione del gallerista napoletano riecheggia ancora oggi il famoso titolo-monito di Andy Warhol: “FATE PRESTO”.

«… il processo che porta a Terrae Motus era già in atto da molti anni nella mia galleria con i generosi contributi di Tatafiore, Calzolari, Richter, Paolini, Fabro, Alfano, le severe performance di Vito Acconci, Rauschenberg, Paladino, Warhol… quando il terremoto colpì con la sua forza brutale, il nostro impegno divenne più frenetico. Fu come se la frattura fra arte e società – la comunità degli individui – divenisse drammaticamente visibile». È con queste parole che il grande gallerista napoletano Lucio Amelio (Napoli, 1931-1994) racconta, in una videointervista rilasciata a Mario Martone, la genesi di una delle più importanti raccolte pubbliche di arte contemporanea in Italia, frutto di un grande spirito collezionistico, ma allo stesso tempo testamento spirituale e atto di denuncia.

Le premesse di Terrae Motus

Questa collezione di opere nacque subito dopo gli eventi sismici che devastarono, nel novembre 1980, Campania e Basilicata. L’idea prese forma la stessa notte di quel tragico 23 novembre, ma un importante sconvolgimento nel mondo dell’arte era già in atto, da una quindicina d’anni, a Napoli, nelle gallerie di Lucio Amelio.

Il noto mecenate fu, di fatto, un grande protagonista del mercato artistico internazionale tra gli anni Sessanta e Novanta: a Napoli inaugura prima la galleria Modern Art Agency nel 1965 e poi, il 20 novembre 1982, la Fondazione Amelio. Le sue pionieristiche esposizioni contribuirono all’affermazione dell’Arte Povera e della Transavanguardia, oltre a promuovere un’attività intellettuale vivacissima che spaziava all’interno di vari interessi: fotografia, cinema, teatro, letteratura, musica. L’operato di Lucio Amelio fu fondamentale sia per spazzare via quelle reticenze che alimentavano ostinatamente la continuità con i gusti ottocenteschi che per lasciare entrare quanto di meglio proponeva la scena artistica internazionale. Ciò contribuì a rendere la città di Napoli uno degli epicentri, nazionali e mondiali, della produzione d’arte e della riflessione critica a beneficio dei giovani autori napoletani, che si trovarono dunque a contatto con giganti come Warhol e Beuys.

Sala Lucio Amelio – Foto: Matilde Di Muro

Una collezione volutamente ampia ed eterogenea

Oltre a tutto ciò, va sottolineata la sensibilità che Amelio acquisisce nel saper leggere i grandi drammi dell’epoca contemporanea. Ed è da questa particolare attitudine che nasce la collezione Terrae Motus, composta da 72 capolavori di arte contemporanea realizzati, come unicum monotematico, da 67 artisti di respiro internazionale come: Miquel Barcelò, Joseph Beuys, Tony Cragg, Keith Haring, Anselm Kiefer, Jannis Kounellis, Carlo Alfano, Nino Longobardi, Robert Mapplethorpe, Mario Merz, Mimmo Paladino, Arthur Penck, Michelangelo Pistoletto, Robert Rauschenberg, Julian Schnabel, Philipe Taaffe, Ernesto Tatafiore, Cy TwomblyEmilio Vedova, Andy Warhol.

Quelle della collezione Terrae Motus sono opere molto diverse tra loro, per tecnica e materiali usati o per scelta espositiva, nel caso di quelle performative; eppure, tutte sono unite dall’unico intento di raccontare un dramma e allo stesso tempo superarlo. La loro eterogeneità è anche un’immagine della complessa situazione dell’arte nel mondo, la quale, in più di 40 anni, non ha subito significativi cambiamenti.

Di proprietà della Fondazione Amelio, la collezione fu destinata dal gallerista stesso, per volontà testamentaria del 1993, alla esposizione permanente presso la Reggia di Caserta ed è lì conservata dal 1994 dopo alcune mostre temporanee a Villa Campolieto nel 1984, al Grand Palais di Parigi nel 1987 e la breve tappa di alcuni lavori all’Institute of Contemporary Art di Boston nel 1983.

A Caserta, nel corso degli anni, le opere sono state allestite in vari modi negli ambienti dell’Appartamento storico della Reggia per poi, dal 2020, a quarant’anni dal drammatico evento, essere collocate lungo il percorso museale tradizionale degli Appartamenti reali. Ventuno lavori – trattasi di alcuni tra i più iconici – si pongono in relazione diretta con il Quarto del re, nell’ala dell’Ottocento, e con il Quarto dei principi ereditari, nell’ala del Settecento. Il progetto, sviluppato dal direttore generale Tiziana Maffei, in collaborazione con Angela Tecce, storico dell’arte già dirigente MiBACT e curatore di mostre di rilievo internazionale, ha l’intento di far dialogare gli spazi storici del complesso vanvitelliano con le opere d’arte contemporanee, creando, allo stesso tempo, un ideale collegamento con il progetto originario di Lucio Amelio di voler scuotere il pensiero critico del pubblico.

Sala Lucio Amelio – Foto: Matilde Di Muro

Il Terremoto di Beuys, proiezione artistica della fragilità umana  

Per fare ciò, non a caso, l’esperienza di visita complessiva si apre al visitatore con l’opera Terremoto in Palazzo di Joseph Beuys.

Quest’ultimo era stato, per Amelio, l’ispiratore di un particolare punto di vista sull’arte come strumento e possibilità di riscatto per l’umanità intera, tant’è che di lui diceva: “Ha saputo indicarmi che l’arte non è decorazione”. Terremoto in Palazzo è un’opera allestita con una serie di oggetti recuperati dall’artista stesso, visitando i luoghi colpiti dal terremoto della provincia di Napoli, e che sono vecchi strumenti usati per lo svolgimento di vari lavori artigianali: un tavolo da sartoria, uno sgabello da ciabattino, uno strano ripiano utilizzato per la costruzione di botti e barili. Gli oggetti sono collocati così come furono lasciati dai trasportatori e l’intervento dell’artista è stato semplicemente quello di posizionare, ai loro piedi, dei recipienti di vetro; qualche vaso di creta tra tavolo e muro; vetri rotti al centro della scena come residuo di alcuni manufatti che, durante l’allestimento, si erano infranti accidentalmente –  che fanno pensare alle nostre fragili certezze – ed infine un uovo posto in equilibrio instabile sullo strumento del bottaio.

Dunque lo spettatore si trova di fronte al manifesto programmatico dell’intera collezione: è come se in quella scena l’artista avesse colto l’essenza di ciò che quella terribile scossa aveva distrutto e allo stesso tempo generato. Gli strumenti di artigiano rappresentano la tradizione, che è alla base della nostra cultura ma anche dell’esistenza millenaria dell’uomo sulla Terra. Pur poggiando su basi fragili che la natura può distruggere, essa offre al tempo stesso la possibilità di rinascere. Ecco, quindi, il motivo della presenza di quell’uovo sistemato, in bilico, su quello strano piano utilizzato per costruire botti.

Joseph Beuys, ‘Terremoto in Palazzo’ – Foto: Matilde Di Muro

Il significato della parola Terremoto è evidente. Ma perché di Palazzo? Esso è l’immagine dell’egocentrismo moderno e del proprio io ingigantito; l’interpretazione errata della propria esistenza che poi sarà la vita stessa a ridimensionare attraverso l’inevitabile esperienza del dolore. Proprio quest’ultimo, come un terremoto, ci fa cambiare i termini di percezione e ci parla del nostro limite. Lo stesso artista, Joseph Beuys, è stato personalmente testimone di quel crogiuolo di sentimenti che è la vita: di origini tedesche, trascorse un’infanzia semplice a stretto contatto con la natura, partecipò alla seconda guerra mondiale come pilota di aviazione e ne uscì vivo per miracolo grazie alle cure degli abitanti di una tribù tartara in Crimea. Dopo il conflitto trovò nell’arte il mezzo più idoneo per raccontare la sua anima e il suo spirituale amore per la natura al punto da essere chiamato dalla critica “sciamano dell’arte”.

Questi pochi cenni biografici, collegati all’opera in questione, ci fanno capire, una volta di più, il profondo legame tra essa ed il suo artefice.

Guardandola, così povera ed essenziale, si prova commozione perché si percepisce tutto il dolore di un’umanità fragile e ferita nel corpo e nello spirito e, allo stesso tempo, ci fa pensare all’esperienza di gioia che si può provare davanti alla nascita di un bambino: una nuova vita, anche in un luogo dove c’è dolore, guerra, rassegnazione, che ci ricorda che tutto può ricominciare.

A partire da quest’opera così densa di significato, lungo il percorso espositivo il visitatore, tra affascinanti broccati, sontuosi arredi e ricchi stucchi settecenteschi, scorge lavori stravolgenti e dirompenti come: Italia porta di Luciano Fabro, Sussulto di Mario Schifano, Terrae Motus di Mario Merz, L’altra figura di Giulio Paolini, Re uccisi al decadere della forza di Mimmo Paladino, Als ob… ’84-I di Emilio Vedova, West-Go Ho (Glut) di Robert Rauschenberg, Senza titolo di Keith Haring, Et la terre tremble encore di Anselm Kiefer, Static di Gerhard Richter e Vesuvius Circle di Richard Long.

Mimmo Paladino, ‘Re uccisi al decadere della forza’ – Foto: Matilde Di Muro

Fate presto: titolo di giornale che diventa con Warhol opera d’arte

In questo lungo percorso di riflessione l’ultima opera esposta è Fate presto di Andy Warhol come un appello rivolto a ciascuno affinché si contribuisca al superamento di ogni momento di crisi, come ad esempio il terremoto dell’80, la pandemia del 2020 o la difficile fase mondiale che oggi è tristemente in atto.

Per la collezione Terrae Motus l’artista americano realizzò la sua opera attraverso l’immagine serigrafata della prima pagina del giornale Il Mattino del 26 novembre 1980. Fate presto era il titolo dato al suo articolo dal giornalista Roberto Ciuni: un urlo disperato ai soccorsi che tardavano ad arrivare, mentre tremila persone morivano sotto le macerie e la neve. Tre tele giganti, tre serigrafie – una in bianco e nero, una in nero e la terza al centro in bianco – sono un vero e proprio manifesto al cambiamento attraverso un messaggio dirompente che, ancora oggi, non ha smesso di parlare. È così che doveva chiudersi questa collezione, con una scossa che ci intima a non perder tempo, a risvegliarci da quel sonno di morte che lascia tutto immutato.

Beuys e Warhol: due artisti così diversi per sensibilità, storia e cultura, che si erano incontrati a Napoli grazie alla lungimiranza artistica di Lucio Amelio. L’uno apre e l’altro chiude questa straordinaria collezione; è come se si tendessero le mani per contenere, all’interno dello spazio creato dalle loro braccia, un movimento potente che “distrugge per creare”.

Andy Warhol, ‘Fate presto’ – Foto: Matilde Di Muro

Il merito di Amelio: ritenere l’arte un ‘lievito’ sociale e culturale

Tutte le meravigliose opere contenute in questa straordinaria collezione sono esse stesse ‘terremoto’ nel senso escatologicamente salvifico del termine. Il merito encomiabile di tutto ciò va a Lucio Amelio. In un’epoca segnata da tante frammentazioni di ogni tipo e dalla totale perdita di senso, egli ha saputo ripensare all’arte come ‘lievito’ del contesto sociale, civile e culturale, riuscendo a riunire tanti artisti di fama internazionale attorno ad un unico sentire: il dramma dell’uomo davanti ad ogni tipo di tragedia.

Richard Long, ‘Vesuvius circle’ – Foto: Matilde Di Muro

Proprio alla figura di Lucio Amelio ed alla sua memoria è dedicata l’ultima sala del percorso degli Appartamenti reali. Essa accoglie una proiezione video permanente tratta dal documentario realizzato da Mario Franco per la prima esposizione di Terrae Motus alla Reggia di Caserta nel 1992, alcuni cimeli appartenuti al gallerista e la documentazione sulla storia della collezione. L’allestimento, curato dalla direzione del Museo, è stato realizzato da ETT spa, industria digitale creativa internazionale, specializzata in innovazione tecnologica per il patrimonio culturale.

Michelangelo Pistoletto, ‘Annunciazione Terrae Motus’ – Foto: Matilde Di Muro

Insomma, la collezione Terrae Motus pone la Reggia di Caserta al centro di una riflessione più generale che non riguarda soltanto la sua vocazione di contenitore di attività culturali. Al suo interno, infatti, tenendo conto anche delle istanze di piena utilizzazione, recupero e rivitalizzazione dei suoi spazi, si può constatare la compresenza e la reciproca valorizzazione dei linguaggi storici e contemporanei. Attraverso questa collezione, dunque, l’esigenza di conservazione dell’eredità del passato si coniuga con quelle dell’innovazione e dell’apertura alla creatività del presente. La storia di Terrae Motus, in conclusione, ci racconta della capacità di credere fermamente che si possa incidere sulle coscienze con la sola forza dell’arte.

Milan Kune, ‘Terremoto’ – Foto: Matilde Di Muro

2 pensiero su ““TERRAE MOTUS”: alla Reggia di Caserta la raccolta di Lucio Amelio”
  1. Bravissima, come sempre, Matilde Di Muro che questa volta racconta con competenza e sensibilità di questa famosissima collezione!

  2. Grazie Matilde. Mi hai dato lo spunto per riflettere sulla famosa collezione che Lucio Amelio mise insieme realizzando una pagina importantissima di storia dell’arte.

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