L’ingresso della mostra – Foto: Matilde Di Muro

Dal 15 ottobre 2025 al 6 gennaio 2026 il Museo e Real Bosco di Capodimonte presenta una mostra dal titolo NAFRICAMASCHERE (Memorie & Identità/Uomini o Maschere).

Un grande allestimento nel programma di Napoli2500

L’evento si colloca nell’ambito della programmazione di Napoli2500, kermesse promossa dal Comune di Napoli in collaborazione con oltre 80 fra enti, istituzioni culturali, università, realtà del territorio e importanti centri internazionali. La manifestazione celebra i 2500 anni di storia della città di Napoli con mostre, spettacoli e iniziative che, come in un viaggio attraverso i secoli, coinvolgono tutto il territorio cittadino e metropolitano. A tal proposito ricordiamo le dichiarazioni rilasciate all’inaugurazione della kermesse dalla direttrice artistica Laura Valente: “Con Napoli Millenaria non ci accontentiamo di celebrare un compleanno seppur prestigioso. Abbiamo l’ambizione che i progetti messi in campo diventino laboratorio permanente di collaborazione istituzionale e non, con una particolare attenzione ai talenti di questo territorio. Per una storia così complessa e stratificata, da sempre proiettata sui nuovi linguaggi come saldamente sostenuta da una tradizione che nel tempo non ha perduto il suo smalto, non potevamo che puntare su un programma aperto, partecipativo, dinamico e in continua evoluzione, grazie all’azione congiunta di una comunità che ha scelto di collaborare alla creazione di una visione artistica condivisa e diffusa, tra temi, luoghi e ispirazioni. Napoli Millenaria, appunto”.

In questo ricco programma la mostra NAFRICA–MASCHERE, curata da Simon Njami, prodotta da Andrea Aragosa (ideatore di “Black Tarantella”) e realizzata in collaborazione con il Ministero della Cultura (Dipartimento Valorizzazione Patrimonio Culturale), l’Università Federico II di Napoli, l’Università L’Orientale e MUCIV (Museo delle Civiltà), affronta le radici irrisolte del colonialismo italiano in Africa, mettendo in relazione memoria e identità con i linguaggi dell’arte contemporanea.

Una delle maschere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro

L’impostazione storiografica di una mostra dal carattere aperto

Si tratta di un’esposizione itinerante, progettata per essere modificabile, potersi arricchire di nuovi contributi o adattarsi ai futuri contesti in cui potrà essere realizzata. Ora giunge a Napoli perché sappiamo bene quanto questa città sia stata protagonista, in quel particolare contesto storico, come punto di partenza e centro nevralgico per il colonialismo italiano in Africa, giacché molte navi, per le spedizioni verso paesi come l’Eritrea, la Libia e l’Etiopia, sono partite proprio dal suo porto.

La mostra offre un duplice contributo storiografico: da un lato ripercorre la narrazione coloniale che ha profondamente segnato la storia della cultura italiana; dall’altro racconta in che modo la scultura africana influenzò notevolmente i movimenti artistici del primo Novecento.

Sono tre grandi bacheche in vetro a descrivere tutto ciò attraverso l’esposizione di reperti storici, maschere d’epoca, libri e manifesti inediti. Nella prima di esse fanno bella mostra alcuni calchi facciali modellati sul vivente, che, assieme a fotografie e testi, parlano dell’operato dell’antropologo fiorentino Lidio Cipriani. Costui, tra il 1923 e il 1927, fece una serie di viaggi verso il Corno d’Africa con lo scopo di realizzare una costruzione scientifica e culturale dell’‘altro’, del ‘diverso’, del ‘negro’. Questi raccapriccianti materiali, provenienti dal Museo di Antropologia dell’Università Federico II di Napoli, documentano la violenza ideologica che contribuì a giustificare schiavitù e segregazione oltre alle leggi razziali del 1938.

Nella seconda bacheca sono esposte alcune maschere tradizionali africane, unitamente ad alcuni capolavori della letteratura di questo continente. Nell’ultima vetrina, infine, troviamo le testimonianze di come l’arte africana abbia fortemente influenzato le correnti artistiche del XX secolo. Si parte dal manifesto del futurismo del 1909 di Marinetti per giungere, poi, a quelli dadaista di Tristan Tzara del 1918 e surrealista di André Breton del 1924; ai cataloghi della Biennale di Venezia del ’22, delle storiche esposizioni al MOMA – Africa negro Art del ‘35 e Privitism in Modern Art del ’38 – e della mostra del Fuhrer sull’arte degenerata di Monaco di Baviera del ‘37.

La terza bacheca – Foto: Matilde Di Muro

Un itinerario dai molteplici linguaggi, che va oltre la maschera

In realtà, questo progetto culturale si spinge oltre, chiedendo all’arte contemporanea di fare una riflessione critica attraverso l’utilizzo di linguaggi diversi – dalla scultura alla fotografia, dalla performance all’installazione – sul passato coloniale e le sue tracce nell’epoca presente. Pertanto, lungo il percorso espositivo di NAFRICA-MASCHERE, si potrà ammirare una selezione di opere realizzate da 25 artisti contemporanei provenienti dall’Africa, dalla diaspora – ovvero emigrati dal continente anche in epoche più recenti – e dall’Europa.

Tra i primi – quelli, cioè, africani e della diaspora – figurano Pascale Marthine Tayou, Michèle Magema, Meschac Gaba, Kudzanai Chiurai, Zanele Muholi e Maurice Pefura, i cui lavori esplorano tematiche legate alla memoria storica, al corpo e alla politica identitaria. I secondi – cioè quelli europei, tra cui Bruno Ceccobelli, Antonio Biasiucci, Felice Levini e Ugo Giletta – riflettono sulla memoria storica del Vecchio continente con uno sguardo critico sul passato coloniale e sulle sue conseguenze contemporanee. Infine, vi sono le opere degli artisti attivi tra Africa ed Europa, come Kader Attia, Maria Magdalena Campos e Theo Eshetu, i quali sperimentano pratiche transdisciplinari per parlare della complessità delle identità ibride e delle sue narrazioni collettive.

Maschere di Bruno Ceccobelli – Foto: Matilde Di Muro

Protagonista assoluta è la maschera, che, nelle varie culture africane tradizionali, permette a chi la indossa non di nascondersi o travestirsi ma piuttosto di trasformarsi, di abbandonare la propria identità per divenire colui che è in grado di dialogare col divino, l’aldilà e gli spiriti della natura. Dunque un oggetto dalle caratteristiche pressoché magiche, tanto da permettere di entrare in contatto con tutto ciò che riguarda la sfera spirituale e che non è sensorialmente percepibile.

Come abbiamo detto, in questa mostra sono esposti alcuni esempi di maschere tradizionali africane, a testimonianza di una cultura profonda ed erroneamente giudicata tribale dal mondo occidentale. Essi dialogano con altre simili fantasiose riproduzioni d’arte contemporanea, realizzate con le più disparate tecniche e attraverso l’utilizzo di materiali diversi, persino ottenute dall’assemblaggio di oggetti di uso quotidiano o da rottami, metalli saldati e residui di armi dismesse di guerra, come nel caso delle opere di Gonçalo Mabunda.

Maschere di Gonçalo Mabunda – Foto: Matilde Di Muro

Un’arte che esorcizza e riscrive la storia, protesa verso un futuro migliore

Si tratta, insomma, di un evento espositivo davvero interessante perché sceglie di non proporre una morale o una lettura univoca sul tema, ma di offrire uno sguardo ampio e aprire uno spazio di risonanza critica anche attraverso l’arte che, in questo caso, agisce come strumento di esorcismo e riscrittura. A spiegarlo è stato il curatore stesso della mostra Simon Njami, scrittore e teorico dell’arte contemporanea di origini camerunesi, punto di riferimento per l’arte e la letteratura africana contemporanea. Egli ha dedicato gran parte della sua carriera al superamento di ogni forma di stereotipo culturale, alla demolizione delle narrazioni eurocentriche sull’Africa e alla ridefinizione dei confini artistici globali. L’esposizione, curata in maniera tanto appassionata e competente, parla di memoria, di responsabilità e di sguardi sul futuro. L’operazione di ripercorrere, attraverso l’arte, un capitolo doloroso della nostra storia ci offre la possibilità di comprenderlo profondamente per poi scegliere di costruire un futuro più giusto, più aperto e più solidale. Napoli, che all’epoca fu tristemente tra le città protagoniste di queste vicende, oggi rinnova il suo rapporto con l’Africa facendo leva sulle sue grandi capacità di accoglienza verso i migranti, creando nuove relazioni basate sull’inclusione e sul riconoscimento del ruolo potenziale dei giovani africani come risorsa e favorevole ponte culturale.

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