Presepe Cuciniello (XVIII sec.) – Certosa e Museo di San Martino, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Il presepe napoletano non è una semplice rappresentazione della Natività di Cristo, ma una tradizione secolare che fonde maestria artigianale, spiritualità e vita quotidiana.
I primordi e le radici antiche (XIV – XVI Secolo)
Il primo presepe a Napoli è menzionato in un documento del 1025, che parla di una rappresentazione allestita nella chiesa di S. Maria del Presepe (oggi non più esistente), mentre al di fuori della città, in Campania, la prima attestazione risale al 1324, in un testo che cita una cappella del presepe di casa d’Alagni ad Amalfi. Sempre a Napoli, inoltre, si è tramandata la memoria di una Natività esposta nella chiesa di Santa Chiara, risalente alla prima metà del Trecento e composta da una giovane Maria giacente e dal Bambino Gesù: un’iconografia rara nella scultura lignea italiana del XIV secolo.
L’allestimento dei presepi cominciò a diffondersi nella Napoli aragonese intorno alla seconda metà del Quattrocento grazie ad artigiani chiamati figurarum sculptores, che realizzavano rappresentazioni formate da statue lignee policrome e dorate a grandezza naturale, poste davanti a sfondi dipinti. Un esempio particolarmente significativo è l’opera commissionata nel 1478 da Jacovello Pepe a Pietro e Giovanni Alamanno per la chiesa di San Giovanni a Carbonara: essa comprendeva quarantadue figure, alcune delle quali sono oggi conservate presso il Museo di San Martino a Napoli. La scena comprende, oltre ai personaggi tipici (il Bambino, la Madonna, san Giuseppe e gli Angeli), due profeti e due sibille (figure mitologiche di donne vergini dotate di virtù profetiche), una delle quali recentemente identificata come Persica (secondo la tradizione classica, proveniente dall’Oriente), che reca nelle mani il rotolo con il profetico annuncio della nascita miracolosa “Gremium Virginis erit salus gentium.”

Presepe di San Giovanni a Carbonara (1478) – Certosa e Museo di San Martino, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Durante la prima metà del Cinquecento si distinsero scultori come Pietro Belverte, Cristiano Moccia e Giovanni da Nola. Quest’ultimo fu autore di splendide figure per diverse chiese, tra cui quella di Santa Maria del Parto a Mergellina, realizzate intorno al 1524 su commissione di Jacopo Sannazaro, che proprio in quel periodo pubblicava anche il suo poemetto De partu virginis.
Fu alla metà del Cinquecento, con le modifiche sostanziali introdotte da San Gaetano da Tiene, che iniziò la realizzazione di un presepe con figure in legno vestite con abiti del tempo. Inoltre, comparvero i primi paesaggi in rilievo e si aggiunsero cani e piccole greggi ai tradizionali bue e asinello. A tal proposito, un altro importante documento che cita la produzione di presepi è del 1532. Di esso parla Stefano De Caro, ex soprintendente a Napoli, coautore del libro Patrimoni intangibili dell’umanità. Il distretto culturale del presepe a Napoli, aspetti storici e artistici del presepe napoletano. Si tratta di una convenzione notarile per un presepe con pastori in terracotta dipinta, realizzato da Domenico Impicciati su commissione di Matteo Mastrogiudice di Sorrento. La Natività, andata dispersa, era ambientata in una grotta e aveva al suo interno la Madonna, san Giuseppe, il Bambino, l’asino, il bue, gli angeli e due pastori.

Presepe del Banco di Napoli (XVIII-XIX secolo) – Palazzo Reale, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Sul finire del XVI secolo, come evidenziato dallo stesso De Caro, nel clima della Controriforma gli allestimenti presepiali divennero uno strumento di catechizzazione popolare grazie alla mescolanza culturale e alle più ampie vedute della Curia napoletana, che accettava l’introduzione di personaggi della tradizione dei Vangeli Apocrifi e di richiami a simboli pagani.
L’evoluzione artistica e laica (XVII secolo)
Il Seicento segna un passaggio cruciale nella storia dell’arte presepiale, che si evolverà poi nel Settecento in una dimensione più laica, passando dalle figure statiche e solenni all’adozione di manichini snodabili in legno.
All’inizio del XVII secolo l’ultimo grande interprete della tradizione lignea cinquecentesca fu Aniello Stellato. De Caro nel suo libro parla di un contratto del 1616 che attesta la commissione di un presepe di diciannove figure, la cui decorazione, specialmente per la Sacra Famiglia e i Magi, richiedeva l’impiego di oro zecchino. Il capolavoro, realizzato nel 1659 dai fratelli Michele e Donato Perrone per il Viceré conte di Castrillo, composto da ben 112 personaggi, può essere considerato un vero e proprio ‘paleotipo’ di quello che sarà il presepe napoletano laico e cortese.
I manichini, con teste e arti in legno, diedero plasticità e dinamismo alle statuette, consentendone diverse pose; sul finire del secolo, si diffuse poi l’uso di figure in stoppa, sostenute da un’armatura di fil di ferro e dotate di occhi in vetro soffiato. Peraltro, in tale contesto si assiste sempre più alla partecipazione diretta e attiva del committente nella costruzione delle scene. Il presepe, arricchendosi successivamente di elementi profani e teatrali, divenne sempre meno oggetto da chiesa e sempre più arredo di palazzo. Fu così che le commesse per tali opere furono sempre meno religiose e sempre più, invece, nobiliari e borghesi.

Particolare di un pastore di presepe napoletano (XVIII secolo) – Collezione Intesa Sanpaolo, raccolta Banco di Napoli – Palazzo Reale, Caserta – Foto: Giorgio Manusakis
L’epoca d’oro: il Settecento cortese
Il Settecento è l’epoca in cui il presepe raggiunse la sua piena dimensione, diventando un pregiato oggetto di artigianato artistico, anche molto ricercato fuori dai confini di Napoli. La produzione dei pastori, la cui altezza fu standardizzata in 35-40 centimetri (la cosiddetta terzina), passava attraverso un lavoro articolato che coinvolgeva scultori, modellatori, assemblatori, pittori (chiamati anche coloritori) e sarti. La realizzazione di teste in terracotta policroma, con occhi di vetro soffiato dipinti a mano, diede al prodotto finito una maggiore raffinatezza rispetto al legno usato in precedenza. Quest’ultimo rimase, invece, materiale di elezione per la costruzione degli arti, in modo da garantire resistenza e facilità nell’innesto sul manichino, che era fatto di stoppa e ferro.

Gruppo presepiale denominato “dell’Elefante” (XVIII secolo) – Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Tra i committenti più illustri figurano il principe di Ischitella, Emanuele Pinto, noto collezionista, e i Borbone, con allestimenti grandiosi come quello della Reggia di Caserta. Anche il re Carlo e la regina Maria Amalia si dedicavano personalmente alla realizzazione dei pastori e dei loro raffinati abiti. Naturalmente, per le opere di maggiore prestigio la creazione della scenografia venne sempre più spesso affidata a noti professionisti come gli architetti Maurizio Nauclerio e Niccolò Tagliacozzi Canale.

Presepe napoletano, particolare della Natività (XVIII secolo) – Collezione Intesa Sanpaolo, raccolta Banco di Napoli – Palazzo Reale, Caserta – Foto: Giorgio Manusakis
Personaggi, simboli e fonti antiche
Il presepe napoletano tradizionale è composto da tre nuclei narrativi fondamentali: la Natività, l’annuncio ai pastori e la taverna, collegati dal corteo dei Magi. Le figure possono arrivare fino a 72, includendo anche elementi del paesaggio.
La scena della Natività fino al Seicento veniva ambientata in una grotta-stalla e solo successivamente si diffuse l’adattamento tra le rovine di un tempio pagano, proprio a simboleggiare il trionfo del cristianesimo sul paganesimo. La tradizione del bue e dell’asinello deriva, invece, dai vangeli apocrifi e si collega alla profezia di Isaia (“… Il bue conobbe il suo Padrone e l’asino la culla del suo Signore…”). Maria e Giuseppe sono gli unici a vestire abiti ‘all’antica’ (Maria in rosa e azzurro; Giuseppe in giallo e marrone-violaceo).

Presepe Cuciniello, particolare della Natività nel tempio pagano (XVIII sec.) – Certosa e Museo di San Martino, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
La taverna/osteria, che è un elemento profano, rappresenta l’umanità insensibile alla venuta del Cristo, ma anche probabilmente, come afferma De Caro, un richiamo al diversorium evangelico raccontato dall’apostolo Luca (II, 7). La scena è generalmente caratterizzata dall’esposizione abbondante e dettagliata di cibo.
Il corteo dei Magi nel presepe deriva probabilmente dall’apocrifo Vangelo armeno dell’infanzia. Nel suo originale siriaco, che risale probabilmente al 590, si parla in modo esteso di questi personaggi, facendo riferimento spesso al testo canonico di Matteo. Lo scritto apocrifo, che racconta in modo dettagliato – diversamente dall’Evangelista – la visita dei Magi a Betlemme, per la prima volta nella tradizione cristiana riporta come tali figure fossero tre re chiamati Melkon, Balthasar e Gaspar. Essendosi uniti insieme per ordine di Dio, arrivarono lì nel momento in cui “la vergine diveniva madre.” Essi simboleggiano il mondo e il tempo che si fermano per la nascita di Gesù. Artisticamente la loro ricchezza esprime il gusto rococò per l’esotico, alimentato dalla realtà cosmopolita di Napoli e dai rapporti con l’Oriente.

Presepe in un guscio d’uovo (XIX sec.) – Certosa e Museo di San Martino, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Diverse sono le figure simboliche sempre presenti nei presepi:
– Benino, il pastore dormiente: simbolo del cammino esoterico e del viaggio onirico verso la grotta. C’è chi sostiene che l’intera scena del presepe sia il suo sogno e che, se si svegliasse, la Natività non esisterebbe più;
– Ciccibacco (Bacco): figura di confine tra sacro e profano, rievocazione del dio pagano Dioniso/Bacco;
– La lavandaia: allegoria della levatrice che assistette la Madonna. I panni puliti, secondo una variante dei Vangeli apocrifi, starebbero a simboleggiare la nascita miracolosa e la verginità di Maria;
– I venditori di cibo: in numero di dodici, simboleggiano i dodici mesi dell’anno, caratterizzati dai prodotti raccolti e consumati nei diversi periodi (ad esempio, gennaio è il macellaio, ottobre il vinaio, novembre la castagnara e dicembre il pescivendolo);
– Il ponte: simbolo di passaggio e limite tra il mondo dei vivi e quello dei morti, è associato a leggende magiche e apparizioni notturne;
– Il cacciatore e il pescatore: insieme rappresentano le dualità vita/morte e giorno/notte. Il secondo simboleggia anche Gesù, pescatore di anime.
L’eredità contemporanea
Dopo una lenta decadenza dei grandi allestimenti nell’Ottocento, la produzione dei presepi e dei relativi personaggi si concentrò nelle botteghe di Via San Gregorio Armeno, nel cuore della Neapolis greco-romana, mentre le collezioni importanti, come quelle di Michele Cuciniello, confluirono nel Museo Nazionale di San Martino.

Presepe Cuciniello, particolare della Natività con gli angeli in volo (XVIII sec.) – Certosa e Museo di San Martino, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Nel Novecento la realizzazione di Natività divenne un fenomeno di massa; la qualità media delle figurine in terracotta, non più artigianali ma fatte a stampo, diminuì, ma al contempo vi fu una loro diffusione esponenziale, consentendo alla tradizione di superare la crisi della committenza storica. Si è così sviluppata una produzione per tutte le tasche, che ha consentito, anche a ceti sociali che prima erano solo spettatori nelle chiese, di creare in autonomia un presepe secondo il proprio estro e gusto.
Oggi l’arte presepiale, concentrata in via San Gregorio Armeno, è portata avanti da famiglie come i Ferrigno, i Giannotti, i Di Virgilio e i Piezzo-Maddaloni, in grado di elaborare prodotti artistici di grande gusto e qualità, nel rispetto dei canoni del Settecento ma anche con un occhio all’attualità. Marco Ferrigno, ad esempio, è noto per aver inventato il ‘pastore di attualità’, realizzando nel 1987 il primo Maradona. Da allora gli artigiani si sono cimentati nella riproduzione di personaggi della politica nazionale e internazionale, dello sport e dello spettacolo, cercando di stare al passo con gli eventi (l’ultimo vip ad essere rappresentato è la cantante Ornella Vanoni, recentemente scomparsa).

Pastori moderni – Napoli, via San Gregorio Armeno – Foto: Giuseppe Schiattarella
La ‘via dei presepi’ è un luogo della Napoli contemporanea dove questa magia rinasce, in crescendo, ogni anno da almeno cinque secoli. Si è creata così una tradizione dove si associano cultura, collezionismo, abilità artistica, posti di lavoro, capitale e sviluppo economico locale. In sintesi, la storia del presepe napoletano è un magnifico palinsesto che, partendo da menzioni documentate nel Trecento e attingendo a testi sacri e vangeli apocrifi, ha saputo trasformarsi da rappresentazione sacra in un elaborato gioco aulico che riflette la vita e la cultura della Napoli cosmopolita, mantenendo intatto, grazie alla maestria artigianale, il suo fascino unico.
Il Presepe Favoloso
Un esempio concreto di come l’arte presepiale in tempi moderni riesca armonicamente a fondere canoni estetici settecenteschi, elementi religiosi e storici, miti e leggende (anche orali) della nostra tradizione è certamente il Presepe Favoloso, realizzato nel 2021 dai fratelli Scuotto e dal gruppo della “Scarabattola” su scenografia curata da Biagio Roscigno.
L’opera è stata collocata nel ventre della città, presso la sagrestia della basilica di Santa Maria della Sanità, quasi come contraltare al celebre presepe Cuciniello esposto in collina, all’interno della Certosa di San Martino. L’allestimento, che include più di cento pastori, oltre ad animali e preziosi accessori, deriva dalla volontà di fondere il presepe aulico con quello popolare, incorporando elementi fantastici.

Presepe Favoloso (2021) – Basilica di Santa Maria della Sanità, Napoli – Foto: Giuseppe Schiattarella
I personaggi rappresentati esprimono una ricchezza di simboli che vanno oltre la Natività e raccontano la storia, la cultura, ma anche i mali della società napoletana. Molti di essi sono espressioni estetiche di leggende usate per esorcizzare paure o tenere i bambini lontani dai pericoli: il lupo Mannaro, Maria Manilonga (o Marancola), una strega con lunghe braccia che afferra i bambini dai pozzi, o Mamma Sirena, un demone acquatico che rapisce fanciulle; inoltre, c’è il diavolo, spesso rappresentato sotto mentite spoglie (come Belfagor, l’oste che rifiutò Maria e Giuseppe), o intrappolato in una gabbia.
Non mancano riferimenti temporali e ciclici, come i 12 monaci sul ponte e i venditori di frutta (anche fuori stagione, come ciliegie e angurie), che simboleggiano i 12 mesi dell’anno; vi sono, poi, i due giocatori di carte che rappresentano i due solstizi (inverno/estate) o Carnevale e Pasqua (morte e resurrezione).
La scenografia include anche figure della tradizione popolare, come il femminiello che estrae il numero dal panariello della tombola, e storie profonde come quella di Stefania. La donna sterile, non potendo vedere la Natività, ingannò gli angeli portando una pietra in un panno, che si trasformò miracolosamente nel piccolo santo Stefano.
Fedele alla tradizione settecentesca che ritraeva spaccati di vita quotidiana, il presepe include osterie e mercati, dove sono presenti anche figure contemporanee e teatrali come l’infante Maradona (il bimbo che palleggia con un’arancia), Totò, vestito da nobile, ed Eduardo De Filippo che, nei panni di Pulcinella, ritrova per un attimo la sua perduta Luisella a cui cede la maschera.

Presepe Favoloso, particolare con Totò e Eduardo (2021) – Basilica di Santa Maria della Sanità, Napoli – Foto: Giuseppe Schiattarella
I pastori della bottega La Scarabattola sono realizzati con tecniche tradizionali: la testa, le mani e i piedi sono modellati in terracotta, con occhi di vetro per ottenere un’espressività potente; i corpi, invece, sono snodabili in quanto composti da un’imbottitura in stoppa e fil di ferro. Accurata è la fattura degli abiti, che sono cuciti su misura con tessuti naturali, come seta e cotone, in taluni casi colorati a mano per ottenere sfumature uniche. Il Presepe Favoloso rappresenta, in sintesi, l’umanità di Napoli, che riunisce ‘vicini’ e ‘diversi’ intorno alla speranza della salvezza, integrando il sacro con il popolare e il favoloso.
