Foto: Gea Scolavino Vella

Francesca Comencini affida ad una toccante e sincera autobiografia il ricordo di suo padre, il grande regista Luigi Comencini.

La pellicola, candidata ai David di Donatello nella categoria ‘miglior film’, è una grande riflessione sul cinema, ambito che lega indissolubilmente, nonostante le diversità della vita, il padre e la figlia.

Una trama autobiografica: dalla dolce infanzia di Francesca ai suoi problemi adolescenziali

Il tempo che ci vuole, di Francesca Comencini, è un film che esplora il complesso rapporto tra la regista e suo padre, Luigi Comencini, uno dei grandi maestri del cinema italiano. A quarant’anni dal suo debutto con il film Pianoforte, la regista torna sul tema della tossicodipendenza che ha segnato la sua prima età adulta, questa volta con un racconto profondamente autobiografico, il cui filo conduttore è il rapporto tra lei e il padre. La narrazione si sviluppa in due momenti: l’infanzia di Francesca, caratterizzata dalla magia del cinema e dalle visite ai set diretti dal papà, e la sua adolescenza ribelle, segnata da difficoltà personali. Comencini, con questo film, conduce lo spettatore in un viaggio emotivo tra memoria e fantasia: un percorso che non aveva mai intrapreso con tanta audacia e sincerità.  

Il racconto dell’infanzia della regista è una dichiarazione d’amore al cinema ed un ritratto del padre visto dagli occhi di una bambina che lo accompagna sul set, trovandosi immersa in un mondo che le appare come magico, incantato. Emblematica è una frase che Luigi Comencini pronuncia durante la realizzazione de Le avventure di Pinocchio, quando, rimproverando un suo collaboratore protagonista di atteggiamenti scortesi nei confronti degli abitanti del villaggio dove si svolgevano le riprese, afferma: “Prima la vita, poi il cinema”. Queste parole, apparentemente semplici, sono essenziali nel descrivere una visione di questo contesto – quello cinematografico – che dà priorità alla vita quotidiana, mezzo fondamentale per la ricerca della verità profonda e dell’autenticità dei sentimenti.

Il personaggio di Luigi Comencini, interpretato con straordinaria intensità da Fabrizio Gifuni, è una figura che incarna il cinema popolare, genuino, che non rinuncia mai alla dimensione umana. L’omaggio alla figura del padre-regista non è però l’unica tematica affrontata: Francesca, da bambina immersa nel mondo del cinema (interpretata da Anna Mangiocavallo), diventa una giovane donna (interpretata da Romana Maggiora Vergano) che vive le difficoltà della tossicodipendenza come conseguenza del disincanto, delle difficoltà della crescita, del distacco generazionale. Ed è a questo punto che con il cambiamento di Francesca cambia anche Luigi o, meglio, cambia la prospettiva che ha il film sulla sua figura. Egli non è più il regista, l’artista, ma semplicemente un padre che tenta di comprendere una figlia; di aiutarla a combattere il suo problema; di darle quelle attenzioni che non le aveva dato, nella speranza che, dedicandole “il tempo che ci vuole”, riuscirà ad appianare le distanze, a colmare in parte quel divario generazionale, ad aiutare la figlia ad uscire dal vortice della tossicodipendenza. È in quest’ottica che matura la scelta di Luigi di trasferirsi con Francesca a Parigi per stare al suo fianco e farle forza nelle sofferenze derivanti dall’astinenza. La capitale francese, simbolo di rinascita e di riconciliazione, diventa il luogo dove la relazione tra padre e figlia trova un punto di incontro attraverso il cinema.

La citazione beckettiana nella scena clou del film

Comencini racconta la sua storia personale senza retorica, con grande sincerità, senza nulla concedere all’idealismo e alla morale: il tema della droga è trattato con pudore, delicatezza, autenticità, così come quello del conflitto generazionale. Queste tematiche culminano in una scena cruciale, tra le più potenti ed oneste del cinema italiano recente. Luigi, ormai segnato dal morbo di Parkinson, scopre Francesca in bagno con la siringa e il dialogo che ne scaturisce è epitome di sincerità e umanità. In una scena carica di emozione, padre e figlia, seduti insieme sul pavimento, si guardano negli occhi e si riconoscono nella loro fragilità. Luigi non giudica, ma condivide con lei la propria paura, esortandola a proseguire nel tentativo di superare il dolore. Sempre tentare, sempre fallire, e fallire sempre meglio esclama qui Luigi alla figlia citando Samuel Beckett, svelandoci Il tempo che ci vuole per quello che è: una pellicola sulla vita, sulle difficoltà, sui tentativi e i fallimenti che compongono il percorso umano.

Questo rapporto tra padre e figlia è posto al centro della storia attraverso una scelta stilistica significativa e coraggiosa: l’assenza di un contesto familiare più ampio, come le sorelle e la madre, volutamente non menzionate né rappresentate. A fare da sfondo e da controcanto a questa relazione vi sono gli eventi storici cruciali dell’Italia di quegli anni come la strage di Piazza Fontana, gli attentati delle Brigate Rosse e l’assassinio di Aldo Moro. Tali fatti si intrecciano come un flusso, senza date e riferimenti espliciti, ma si legano alle sensazioni e alle immagini che attraversano la vita dei protagonisti, diventandone parte integrante.

Il montaggio elegante di Luca Bigazzi e la fotografia svolgono perfettamente il ruolo di raccordo tra la storia dei protagonisti e gli eventi storici, catturando l’atmosfera di quegli anni turbolenti. La cura nelle immagini contribuisce a contestualizzare i personaggi in un determinato momento storico evidenziandone le vulnerabilità e le specificità.

Un film come atto di amore e di purificazione

La regia di Francesca Comencini riesce ad essere lucida e onesta. Evitando ogni costruzione artificiosa, la regista riesce a rendere omaggio al padre sottolineando il suo amore di figlia ma anche il distacco generazionale e le ben distinte identità di ognuno. Francesca, per celebrare il padre, sceglie l’autobiografia, genere quarant’anni prima criticato dallo stesso Luigi. Infatti, all’uscita di Pianoforte, il padre dirà alla figlia di non condividere la scelta dei giovani registi di fare opere autobiografiche. Francesca, dunque, ancora una volta contraddice il papà, affidando proprio a quella forma tanto criticata il più grande atto di amore pubblico nei suoi confronti. Il tempo che ci vuole riflette sulla potenza del cinema come forma di narrazione, ma anche come linguaggio che permette di comprendere e vivere la vita stessa. Esso è un film che parla di dolore e amore, di fragilità e di forza, ma soprattutto di un cinema che non dimentica mai la sua essenza: porsi al servizio della vita. Con Il tempo che ci vuole, Francesca Comencini ci regala non solo un’autobiografia, ma una lezione di cinema connesso alla realtà, che non ha paura di mettersi a nudo: un omaggio al padre Luigi, ma anche un’ode al potere trasformativo del cinema, che diventa un atto di purificazione, di ricerca e di amore.

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