Panoramica delle sale – Foto: Giuseppe Schiattarella

La storia e i reperti della sezione dedicata all’anatomia del Museo Universitario delle Scienze e delle Arti partenopeo.

La città di Napoli, con il suo comprensorio territoriale, è ricca di strutture museali, alcune importanti e conosciute che rientrano nei percorsi turistici a livello internazionale, molte altre talvolta sconosciute anche ai napoletani stessi e che, pur avendo grande valore, sono visitate solo da quei turisti curiosi che in autonomia si avventurano alla scoperta dei tanti tesori che la città nasconde.  

Un museo che ha una lunga storia alle spalle e che è poco conosciuto, pur conservando, nella sua specificità, reperti di grande valore è il Museo anatomico, che afferisce all’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

Ubicato in via Luciano Armanni, all’interno delle mura della città, in posizione retrostante Porta San Gennaro, il museo anatomico rappresenta solo una delle sezioni dell’articolato sistema museale universitario denominato MUSA (Museo Universitario delle Scienze e delle Arti), voluto dall’ateneo nel 2007 per offrire un nuovo strumento per la comunicazione e la fruizione dei suoi beni storici. Si tratta di un progetto iniziato con la più antica sezione di anatomia, in cui è raccolta la prestigiosa e preziosa collezione del vecchio Museo di Anatomia, e che si è sviluppato aggiungendo le sezioni di farmacologia, anch’essa di antica formazione, artistica, stomatologia e bibliografica. Per valorizzare anche le strutture architettoniche che le ospitano è stata voluta un’organizzazione museale aperta e diffusa sul territorio, anche se concentrata nel centro storico della città, ad eccezione della sezione artistica ubicata a Santa Maria Capua Vetere, presso una sede universitaria.

Tornando al Museo di Anatomia, si tratta di una struttura museale la cui storia inizia già nel XVII secolo, in concomitanza con un esponenziale sviluppo degli studi di anatomia, e che ha avuto diverse sedi prima della sua attuale localizzazione.

Ingresso del complesso di Sant’Andrea delle Dame – Foto: Giuseppe Schiattarella

Come segnalato dal prof. Vincenzo Mezzogiorno nel suo saggio La storia del museo, inserito nel volumetto intitolato Il museo anatomico di Napoli del 1997, edito dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e in cui si traccia la linea storica della formazione del museo, un primo nucleo di collezioni fu costituito da Marco Aurelio Severino (Tarsia 1580 – Napoli 1656), insigne anatomico e chirurgo presso l’ospedale San Giacomo Apostolo (struttura ospedaliera voluta dal viceré Pietro da Toledo nel 1540, poi abbattuta in epoca borbonica per far posto all’attuale Palazzo San Giacomo). La via segnata da Severino ebbe un altrettanto illustre prosecutore in Domenico Cotugno (Ruvo di Puglia 1736 – Napoli 1822),presso l’ospedale Incurabili. Cotugno fu tenace assertore delle dimostrazioni anatomiche e si prodigò per riordinare le collezioni esistenti, arricchendole con interessanti modelli di cera.

Marco Aurelio Severino, incisione al tratto di C. Ammon (1650) – Domenico Cotugno, ritratto in miniatura – Licenza Creative Commons CC0

Successivamente, la brevità del suo regno non permise a Giuseppe Bonaparte di dare corpo all’idea di istituire un museo di storia naturale sul modello del Musée Nationale d’Histoire Naturelle di Parigi, dove raccogliere i reperti. Anche Gioacchino Murat, subentrato alla guida del Regno di Napoli, nonostante gli sforzi per accelerare il compimento di quanto progettato, con l’ausilio di una commissione presieduta da Vincenzo Cuoco, non riuscì nell’intento. Solo con il rientro alla guida del regno dei Borbone, con Ferdinando IV (grazie al trattato di Calasanza del 1815), verrà fatto il passo decisivo verso l’istituzione di autonomo gabinetto di anatomia, con un sistematico assetto dei reperti presenti.

Come sopra accennato, nel 1819, con l’abbattimento dell’Ospedale di San Giacomo Apostolo nell’attuale piazza Municipio, il Re decretò il trasferimento di tutti i reperti anatomici nei locali assegnati al Museo Zoologico, nella moderna via Palladino. Il Gabinetto venne affidato a Francesco Folinea con l’incarico specifico di implementare la raccolta. Fu poi il suo successore, Antonio Nanula, che ampliò la collezione di reperti nel suo teatro anatomico, aperto nella prima decade dell’800 nell’Ospedale dell’Annunziata. Il materiale fu poi trasferito in un locale al pianterreno dell’Ospedale di S. Francesco (nel palazzo che sino a qualche anno fa era la Pretura di Napoli), una struttura sanitaria fuori Porta Capuana, già deputata a carcere della Vicaria e, successivamente, alla cura dei detenuti. La scuola di Notomia (variante arcaica della parola anatomia) umana, con annesso teatro anatomico e gabinetto di anatomia, fondata e diretta da Nanula, contava 384 gruppi di reperti che furono poi donati dallo scienziato al nuovo Museo di anatomia generale e patologica della Reale Università, di cui divenne anche direttore.

Con una collezione crescente subentrò la necessità di trasferire il Museo Zoologico, dove tutto il materiale era afferito, e di costruire ulteriori nuovi spazi, sempre in via Palladino, per il neonato museo anatomico, la cui inaugurazione coincise con il VII Congresso degli scienziati italiani del 20 settembre 1845. L’ultimo passaggio nell’attuale sede è datato 1880, allorquando il direttore pro tempore, Giovanni Antonelli, ottenne il trasferimento della facoltà di medicina nel più ampio complesso di Santa Patrizia e con essa anche del museo che fu riunito negli stessi locali dell’insegnamento di anatomia. La storia più recente ci racconta dell’appassionato lavoro svolto, dalla fine degli anni ’70, dal prof. Mezzogiorno e dai suoi collaboratori Cosimo Passiatore e Vincenzo Esposito, oggi anche loro cattedratici, per riordinare e catalogare il materiale museale. Il museo, dopo anni di oblio a causa della guerra, prima, e del terremoto del 1980, poi, che tanti danni provocarono, nel 1997 è stato nuovamente riallestito nei locali ristrutturati. Dal 2016, dopo una revisione di tutto il materiale giacente che ha riportato alla luce anche importanti collezioni dimenticate, il Museo di anatomia ha assunto il suo attuale, curato, aspetto grazie agli ampi spazi e alle eleganti teche in legno utilizzate, che ospitano circa 3000 reperti inventariati di immenso valore storico e scientifico.

Ingresso del museo di anatomia – Foto: Giuseppe Schiattarella

Varcando la sua soglia ad accogliere il visitatore ci sono una serie di teche ordinatamente sistemate e ben spiegate che parlano della storia della medicina e degli studi di anatomia fin dai suoi albori. Sono presenti, strumenti chirurgici di più epoche  ceroplastiche, mostruosità fetali, calchi vascolari, pietre (calcoli), scheletri nelle varie fasi dello sviluppo, organi essiccati; inoltre crani pompeiani, di Pontecagnano e della Vicaria (questi ultimi appartenuti a giustiziati); non mancano trofei jivaros (teste miniaturizzate – tsantsas – provenienti dall’Amazzonia ) e, infine, la Collezione delle pietrificazioni di Efisio Marini (scienziato cagliaritano dell’800 passato alla storia come “il pietrificatore”) e quelle didattiche (preparati in formalina di arti e organi).

Guest star del museo è certamente l’omero appartenuto ad uno scheletro preparato a Basilea, nel 1544, da Andrea Vesalio (Bruxelles 1514 – Zante 1564), considerato da tutti il fondatore dell’anatomia moderna per aver postulato per primo, con la sua opera De humani corporis fabrica, pubblicata a Basilea nel 1543, la necessità della   pratica assidua della dissezione di cadaveri per una corretta riscrittura complessiva della descrizione del corpo umano e delle sue parti. Fu un grande passo per la scienza medica che, dopo ben 13 secoli, finalmente si discostava dal dogmatismo galenico (da Galeno di Pergamo, medico romano– Pergamo 129 d.C. – Misilmeri 216 d.C. ca.).

L’omero di Vesalio – Foto: Giuseppe Schiattarella

L’osso conservato a Napoli è il frutto della donazione fatta al prof. Antonio Nanula e al suo gabinetto dal cav. Savarese, che a sua volta lo aveva ricevuto da un cultore di anatomia svizzero, come si legge nella lettera di donazione conservata presso il museo. Dal 1833, con la donazione dei reperti da parte di Nanula all’Università di Napoli, l’omero fa parte del museo di Anatomia. La particolarità e il valore del reperto sono legate alla sua unicità, poiché non esisterebbe più alcun osso dello scheletro preparato quasi cinquecento anni fa da Vesalio a Basilea. Il reperto, quindi, da quando l’anatomia, nel 1231, fu decretata da Federico II insegnamento obbligatorio per gli studi di medicina e dopo l’intervento della Chiesa, che con Papa Sisto IV nella De cadaverum sectione (1472) dichiarava l’anatomia come “utile alla pratica medica e artistica”, rappresenta ufficialmente uno dei più antichi studi anatomici del mondo.

Vesalius Fabrica fronticepiece – Licenza Creative Commons CC0

Il museo e alcuni dei suoi tanti reperti di valore assoluto, però, ci raccontano anche storie particolari della nostra città, una delle quali vale la pena di essere raccontata. Nella teca dedicata alla raccolta dei crani, dove sono presenti reperti a partire dal I secolo e fino all’800, ve ne sono alcuni riguardanti giustiziati della Vicaria e fra essi quello di Giuditta Guastamacchia, che fu al centro di un processo mediatico ante litteram per un efferato delitto datato 1800.

Raccolta di crani – Foto: Giuseppe Schiattarella

Giuditta, donna ammirata per la sua bellezza, aveva una tresca con un sacerdote, Stefano d’Aniello, e per continuare a frequentarsi evitando uno scandalo, fu indotta a sposare un giovane nipote del prelato di appena 16 anni. Il giovane si accorse presto del sotterfugio e se ne tornò al suo paese minacciando di rivelare tutto. Così Giuditta, per evitare che la cosa divenisse di dominio pubblico, decise di mettere a tacere il giovane marito con la complicità del padre, di un barbiere e di un chirurgo. Il giovane, attirato a Napoli con la scusa di una riappacificazione, il 23 marzo 1800 venne strangolato, fatto a pezzi e sfigurato, ma il barbiere, mentre si stava prodigando per la dispersione dei resti umani, venne casualmente fermato dalla Guardia Reale e sotto tortura confessò il fatto. Il tentativo di Giuditta e dei suoi complici di fuggire fu vano in quanto furono tutti arrestati nei pressi di Capodichino, ad eccezione del chirurgo rimasto a casa. Il fatto fece molto scalpore e suscitò in tutto il Regno disgusto e incredulità a causa della torbida vicenda, per cui re Ferdinando volle un processo veloce e sommario, con una punizione esemplare. Tutti, ad eccezione del prete che non partecipò all’omicidio, il 16 aprile 1800 furono condannati alla forca dal Tribunale della Vicaria e giustiziati il successivo 19 aprile. Dopo l’impiccagione testa e mani amputate vennero messe in mostra sui muraglioni di Castel Capuano, secondo quanto prevedeva la legge per quel genere di delitto.

Castel Capuano – Foto: Giuseppe Schiattarella

A livello documentale ciò che resta del fatto sono i verbali della polizia conservati presso l’Archivio di Stato di Napoli, mentre gli atti del processo, come tanti altri, furono distrutti poco dopo la metà dell’800 perché ritenuti di scarso interesse. Prima della loro distruzione, però, gli atti processuali vennero esaminati da Biagio Miraglia, stimato frenologo al quale, dopo 55 anni di pubblica esposizione, vennero consegnati anche i crani per motivi di studio. Proprio nel parere frenologico sul cranio di Giuditta Guastamacchia e dei suoi complici (peraltro letto nel 1856 nell’Accademia Pontaniana), inserito nel suo testo Questioni filosofiche, sociali, mediche e medico-forensi trattate coi principi della fisiologia del cervello, (Napoli 1883), Miraglia ci ha offerto, grazie all’esame delle confessioni dei rei, una ricostruzione particolareggiata della vita di Giuditta e del crudele evento in cui venne coinvolta. Il fatto storico, però, come sovente accade, è diventato leggenda e la tradizione vuole che il Fantasma degli avvocati che aleggia a Castel Capuano sia proprio quello di Giuditta che ogni 19 aprile, giorno dell’esecuzione, torna nell’ex Tribunale. C’è chi racconta di aver udito le sue urla strazianti e chi di averla vista rovistare tra le carte dell’archivio alla ricerca del suo fascicolo. Insomma, si tratta di una vicenda tanto indimenticabile che il teschio della Guastamacchia, oltre ad essere stato oggetto di analisi dagli studiosi di fisiognomica, ha meritato, con quello dei suoi complici, un posto con tanto di nome nel museo anatomico di Napoli.

Oltre ai reperti il museo custodisce anche una parte dell’antico fondo librario dell’ex Istituto di Anatomia, che include antichi e preziosi trattati stampati tra il 1500 e il 1800.

Insomma, quello del museo di Anatomia è un percorso storico ed antropologico racchiuso in un luogo suggestivo dove crebbe il culto di Santa Patrizia, patrona di Napoli, che merita di essere fatto certamente per l’unicità dei suoi reperti, ma anche perché costituisce un compendio dell’evoluzione del pensiero scientifico da divulgare. La visita, totalmente gratuita, può essere prenotata online sul sito del museo che è accessibile tutti i giorni feriali. A far da guida c’è l’app MUSA, scaricabile in situ, che consente una visita assistita in più lingue descrivendo e raccontando gran parte dei reperti presenti nel museo.

Specifiche foto:
Titolo: Marco Aurelio Severino. Line engraving by C. Ammon (?), 1650
Autore: Marco Aurelio Severino. Line engraving by C. Ammon [?], 1650. Wellcome Collection. Public Domain Mark.
Licenza: Creative Commons CC0
Link: https://wellcomecollection.org/works/j5xdck9e
Foto modificata

Specifiche foto:
Titolo: Domenico Cotugno
Autore: Line engraving by A. Locatelli
Licenza: Creative Commons CC0
Link: https://www.rawpixel.com/image/13997230/domenico-cotugno-line-engraving-locatelli
Foto modificata

Specifiche foto:
Titolo: Frontespizio del “De humani corporis fabrica” di Vesalio (1543)
Autore: Pubblico dominio
Licenza: Creative Commons CC0
Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Vesalio#/media/File:Vesalius_Fabrica_fronticepiece.jpg
Foto modificata

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