L’ingresso della chiesa di San Bonaventura – Foto (modificata) concessa dall’associazione Claudio Miccoli
Il piccolo edificio di culto, che ha ospitato nel Seicento una congregazione francescana, è legato alla devozione popolare delle capuzzelle.
Nel cuore del centro storico di Napoli, in via San Giovanni Maggiore Pignatelli, antico cardo della Napoli greco-romana, quasi mimetizzato fra le case che costeggiano l’imponente palazzo Riario Sforza (edificato nel XV secolo), si nasconde un tesoro del nostro patrimonio storico e artistico, purtroppo sconosciuto ai più: la chiesa di San Bonaventura.
Le circa mille chiese esistenti a Napoli rappresentano un viaggio nella storia artistica, architettonica, sociale e religiosa della città. Un percorso che, guardando alle più antiche fonti agiografiche, non anteriori al IX secolo, sarebbe iniziato con il passaggio di Pietro che, diretto verso Roma, vi avrebbe battezzato e consacrato il primo vescovo, Aspreno. Sul luogo dell’incontro dell’apostolo con quest’ultimo e con Candida (una donna pagana convertita dallo stesso Pietro), sarebbero nati il primo altare e la prima cappella dove veniva celebrata la messa, poi inglobati, nel XIII secolo, nella chiesa denominata di San Pietro ad Aram.
A partire dall’Editto di Milano – firmato nel 313 d.C. dagli imperatori Costantino e Licinio, con il quale il cristianesimo viene riconosciuto come religio licita – inizia una fioritura di edifici dedicati al culto che porterà Napoli ad avere un numero di chiese secondo solo a quello di Roma, la quale già nel XVIII secolo era detta “la città delle cinquecento cupole”.
Per chi conosce la città partenopea, in quanto vi abita, e per chi la frequenta, per motivi turistici, di lavoro o di studio, sarà facile individuare le sue chiese più importanti e conosciute, ma farne un elenco sarebbe troppo riduttivo. In realtà, accanto ad esse esistono anche delle realtà quasi nascoste – che si mostrano solo in occasione di eventi o per iniziativa di volenterose associazioni – le quali nulla hanno da invidiare, per significato storico-religioso e sociale, a quelle più note, come nel caso della chiesa di San Bonaventura.
Una piccola cappella di epoca angioina, a pochi passi da Santa Chiara
In via San Giovanni Maggiore Pignatelli, è ubicata la sede dell’antica confraternita francescana di San Bonaventura. Si tratta di una piccola chiesa del XIV secolo, di età angioina, fatta realizzare, secondo alcuni, da re Roberto d’Angiò (detto il saggio) in memoria del fratello, Ludovico da Tolosa (morto nel 1297). Questi, abbracciando la vita religiosa francescana, nel 1294, aveva rinunciato alla successione dinastica a favore proprio dello stesso Roberto.
Al pari del padre Carlo, re Roberto, con la seconda moglie Sancha di Maiorca, fu un fervente sostenitore della cosiddetta ‘ala spirituale’ dell’Ordine francescano (frati che propugnavano una estrema povertà, assetati di ascesi e convinti di essere l’ultimo residuo della Chiesa di Cristo), che si poneva in antitesi con il papato di Avignone. In quest’ottica di francescanesimo spinto fu realizzato, tra il 1310 e 1328, il monumentale monastero di Santa Chiara, voluto dalla regina, e con esso altre cappelle a ridosso della stessa insula conventuale, tra cui quella di San Bonaventura.

Ignoto napoletano della fine del sec. XV – Roberto d’Angiò, Re di Sicilia in veste di Mago (recto), Angelo annunziante (verso), Carlo d’Angiò, Duca di Calabria, in veste di Re Mago (recto), la Vergine (recto) – Tempera su tavola – Museo della Certosa di San Martino, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis
Agli inizi del XVII secolo, dopo aver acquistato il diritto di patronato dalla famiglia Carafa, nella chiesetta si stabilì la confraternita di San Bonaventura, formata da cittadini desiderosi di seguire le orme di San Francesco d’Assisi e del suo ordine. Oggi la struttura, pur essendo ancora luogo consacrato, è chiusa alle celebrazioni, ma negli ultimi decenni è divenuta la sede di associazioni ispirate alla pace e alla non-violenza – come Pax Christi e l’associazione Claudio Miccoli – le quali, tra l’altro, si sono occupate della sua manutenzione e dell’organizzazione di visite guidate.
Opere pittoriche e particolarità architettoniche
Esternamente la piccola chiesa è molto semplice, quasi invisibile al passante frettoloso, e la si distingue grazie all’epigrafe che ne indica il nome (Divi Bonaventurae Sacrum) sopra al portale d’ingresso in piperno, sormontato da una pittura ellittica, nonché attraverso il sovrastante finestrone che lascia intravedere le campane. La suddetta decorazione pittorica, oggi praticamente indecifrabile al pari dell’iscrizione, secondo una descrizione riportata nel libro Notizie del bello e dell’antico e del curioso della città di Napoli dell’avvocato e letterato del XVII secolo Carlo Celano (edizione a cura di Giovanni Battista Chiarini – 1870), raffigurava una mezza figura di Vergine con busti di due confratelli con sacco. La facciata odierna, che si presenta decorata da lesene (elemento architettonico, solitamente verticale, che riproduce la forma di un pilastro), è il risultato delle modifiche intervenute nel 1778, le quali alterarono l’aspetto originario della cappella.
L’impianto architettonico della chiesetta è a navata unica e ha una caratteristica assai singolare, in quanto costituisce, secondo lo storico dell’architettura Roberto Pane (1897 – 1987), l’unico esempio di struttura ogivale trecentesca con due ambienti sovrapposti. Quello superiore, infatti, è caratterizzato da un soffitto con volte a crociera – raro esempio di architettura gotica del XIV secolo – anche se l’importante restauro settecentesco, citato precedentemente, ne ha in parte modificato la struttura. Lo stesso Celano, nella sua descrizione seicentesca, scrive: “Da ultimo non debbono essere trasandate le linee di scompartimento della volta, che nel loro stile gotico vi attestano l’antichità della chiesuola, la quale una volta raccolse i fratelli di essa in un oratorio superiore, rovinato dappoi per vetustà…”

Chiesa di San Bonaventura – La volta – Foto (modificata) concessa dall’associazione Claudio Miccoli
Al suo interno spicca la bella pala sull’altare maggiore, raffigurante la Madonna tra Angeli e i santi Bonaventura Francesco e Ludovico d’Angiò (Bonaventura si distingue per la mancanza delle stimmate e per la posizione delle mani che invitano all’adorazione), attribuita alla bottega di Fabrizio Santafede, attivo a Napoli a cavallo fra il Cinquecento e il Seicento. Quest’ultimo fu un pittore che, secondo autorevoli critici, aprì il suo linguaggio controriformato, sia pure timidamente, anche alle suggestioni del caravaggismo.

Bottega di Fabrizio Santafede (att.) – Madonna tra Angeli e i santi Bonaventura Francesco e Ludovico d’Angiò Foto (modificata) concessa dall’associazione Claudio Miccoli
Altri due dipinti di grande interesse artistico sono un elemento di un polittico cinquecentesco, raffigurante San Francesco che riceve le stimmate ed attribuito al pittore senese Giacomo Sanso, e una tela con un Cristo crocifisso (di ignoto) che si rifà ad un modello che Michelangelo eseguì per Vittoria Colonna. Quest’ultimo influenzò grandemente i michelangioleschi del Cinquecento, fra cui quel Marco Pino, che di Santafede fu il maestro, peraltro autore di un medesimo tema nella chiesa dei Santi Severino e Sossio.

Giacomo Sanso (att.) – San Francesco che riceve le stimmate – Foto (modificata) Madonna Raffaella
Un’altra tela di ignoto rappresenta l’Assunta che schiaccia il serpente; un potente simbolo teologico che sottolinea la vittoria di Cristo sul male e la speranza della salvezza per l’umanità.

Ignoto – Assunta che schiaccia serpente – Foto (modificata) Madonna Raffaella
Sebbene molti non ne siano a conoscenza, in una teca all’interno della chiesa è custodito un piccolo pezzo del “Santo Braccio” di San Bonaventura, oggi conservato a Bagnoregio (VT). Esso costituisce una parte della più grande delle reliquie rinvenute dopo la profanazione del suo sepolcro a Lione ad opera degli Ugonotti nel 1562.

Teca con reliquia di San Bonaventura – Foto (modificata) concessa dall’associazione Claudio Miccoli
La cripta e il culto dei morti
Scendendo al livello sottostante si possono ammirare tutte le caratteristiche delle cripte collegate alle confraternite di molte chiese e cappelle del centro storico, e non solo, della città, con l’esposizione delle capuzzelle (i teschi) tanto care alla tradizione napoletana. Tale culto, nella seconda metà del secolo scorso, rasentò il feticismo (basta ricordare il rito delle “anime pezzentelle”, che prevedeva l’adozione e la sistemazione, in cambio di protezione, di un cranio al quale corrispondeva un’anima abbandonata), tanto che il cardinale di Napoli, Corrado Ursi, nel 1969 fu indotto a chiudere il Cimitero delle Fontanelle per fermarlo.
L’ampio ambiente sotterraneo è caratterizzato da due aree quadrangolari contenenti terra santa destinata alla sepoltura. Le pareti circostanti lasciano intuire la pregressa presenza di nicchie, ora murate, nelle quali i defunti erano collocati in posizione seduta per favorire il cosiddetto “scolo”, cioè il rilascio dei fluidi corporei, propedeutico al seppellimento. Ai lati sono collocati i teschi e in fondo all’ambiente un altare.

L’ambiente sotterraneo coi teschi al lato – Foto (modificata) concessa dall’associazione Claudio Miccoli
Le confraternite hanno svolto un ruolo sociale importante per il popolo napoletano. Storicamente, esse ottennero il riconoscimento ufficiale con il trattato De Conphratriis quos consortia vocant, durante il Concilio di Nantes del 660 d.C., che ne codificò le regole di comportamento e i campi operativi, inizialmente associati alla pratica della carità e del culto in generale.
Con il trascorrere dei secoli la devozione verso i morti acquisì un ruolo centrale e la conservazione dei resti mortali assunse un’importanza sostanziale per la loro sacralità legata alla resurrezione e al giudizio divino. Le confraternite iniziarono così ad attrezzarsi per ospitare le sepolture dei confratelli, preoccupati di non far cadere nell’oblio la propria identità e di separarsi dai propri cari finendo nelle fosse comuni: un destino a cui andavano inevitabilmente incontro le classi più disagiate e comunque coloro che non potevano permettersi una tomba in cappelle private o in chiesa.
Ne è un esempio eclatante proprio la lapide presente nella cripta, posta tra le due sezioni di terra santa, in cui vengono rappresentati i membri della congregazione incappucciati. Gli stessi sono sovrastati da due braccia, una ignuda e l’altra vestita dal saio, che si incrociano e che hanno le mani segnate dalle stimmate. Si tratta di un simbolo francescano (peraltro rappresentato anche nello stemma arcivescovile che sormonta l’altare maggiore e la cui istituzione, secondo recenti studi, si deve proprio a San Bonaventura), tipico dell’emblema araldico dell’Ordine Serafico. Esso, contenendo le raffigurazioni del braccio nudo di Cristo e di quello di Francesco, sta a indicare il patto di indissolubilità tra l’Ordine francescano e la Chiesa di Cristo.
In calce al bassorilievo è incisa la inequivocabile frase: “CONCORDES ANIMO QUI IAM VIXERE SODALI NE MORS DIVIDERET CONTEGIT ISTE LAPIS – ANNO DOM MDCXVIII” (“Questa pietra ricoprì coloro che già vivevano in armonia tra loro, affinché la morte non li separasse – anno del signore 1618”). Proprio a sottolineare come l’appartenenza ad una congregazione fosse l’unico modo per molti di non perdere la propria identità familiare anche dopo la morte.

La lapide nella cripta – Foto (modificata) concessa dall’associazione Claudio Miccoli
Il ruolo fondamentale dell’associazionismo e della scuola
La chiesa di San Bonaventura è una piccola gemma nel vasto patrimonio storico culturale di Napoli, che racconta una sua storia, ma che riesce a brillare solo grazie all’impegno di associazioni, come quella intitolata a Claudio Miccoli (vittima, il 6 ottobre 1978, della violenza di matrice politica di quegli anni), che ne promuovono la tutela e la valorizzazione. Un grazie da estendere alla collaborazione offerta da sensibili istituzioni scolastiche, come, da ultimo, il Liceo Scientifico Renato Caccioppoli di Napoli e i suoi studenti della classe III B, che quest’anno hanno curato con impegno le visite guidate in occasione del ‘Maggio dei Monumenti’. Forse tutto ciò può sembrare poco, ma è comunque molto importante in attesa di tempi migliori.