Mulino Porta di Castello di Sopra – Foto: Matilde Di Muro
Il decennale e meritevole impegno del FAI, per la protezione e la valorizzazione dei Beni artistici e ambientali, ci porta a Gragnano per conoscere un luogo identitario della cultura partenopea e vero gioiello di archeologia industriale.
Nell’ambito dell’annuale rassegna “Gragnano Città della Pasta” dedicata alla Pasta di Gragnano IGP, tenutasi dal 6 all’8 settembre 2024, il gruppo FAI Vesuvio, guidato dalla capo gruppo Carmela Di Giorgio, ha accompagnato i visitatori in un suggestivo percorso che, in uno splendido contesto naturalistico, ci ha raccontato di storia, tradizioni e ingegno umano propri di questo territorio.
La pasta a Gragnano: storia di una lunga e importante tradizione
Il destino di Gragnano, cittadina di antichissime origini (VII – VI sec. a.C.), situata ai piedi dei Monti Lattari e a sud dell’area metropolitana di Napoli, è evidentemente chiaro già nel suo nome che, probabilmente, deriva dalla ‘Gens Grania’, importante famiglia di epoca romana, abitante dei luoghi e dedita alla produzione e al commercio del grano. Molte sono le ipotesi sull’origine della pasta ed è difficile accertarne la veridicità. Tuttavia, quel che è certo è che la sua produzione si è imposta e diffusa, grazie ai ‘vermicellari’ napoletani e del suo hinterland costiero, già nel XII secolo e che Gragnano, appartenente all’antico Ducato Amalfitano, vi avrà sicuramente contribuito con un’attività di tipo familiare e/o presso le botteghe dei panettieri.
La produzione sistematica dei ‘maccheroni’, con la diffusione dei famosi pastifici, si è poi sviluppata a partire dal XVII secolo. Infatti la pasta gragnanese divenne sempre più apprezzata per la sua straordinaria qualità ottenuta grazie al particolare microclima del luogo. Molte ore di sole favorivano l’essiccazione della pasta in maniera efficace ma, allo stesso tempo, moderata dalla presenza del vento e dell’umidità, provenienti dal mare, e dall’acqua utilizzata per la sua lavorazione, che, batteriologicamente pura, derivava dalle sorgenti dei Monti Lattari dopo essersi arricchita di particolari caratteristiche organolettiche lungo il suo viaggio sino a valle.
Di conseguenza, la produzione della pasta aumentò notevolmente ed uscì dal ristretto ambito della manifattura familiare per trasformarsi in attività proto-industriale.
Pian piano si affermarono gli operai specializzati come gli ‘spannatori’, cioè coloro che tagliavano i maccheroni e li stendevano su canne, e gli ‘aizacanne’, abili a spostare la pasta manualmente senza farla incollare. Cambiarono, col tempo, anche strumentazioni e luoghi: si utilizzano torchi a vite di legno e martore più grandi, si costruiscono locali più ampi indispensabili per l’asciugatura di cospicue quantità di prodotto che avveniva non più solo all’aria aperta. Insomma, nei secoli, prima da parte della semplice popolazione del luogo e poi grazie a imprenditori e maestranze, c’è stato un grande e continuo investimento di capitali e duro lavoro per prendersi cura di questa ‘medievale’ arte antica che ha dato lustro alla città: l’Arte Bianca di Gragnano. Attraverso le varie epoche, tra periodi di eccezionale produzione ed altri di minore attività dovuti agli svariati avvenimenti socio politici, la tradizione della pasta di Gragnano è giunta oggi, sino a noi, con un riconoscimento europeo del marchio IGP, indicazione geografica protetta, ottenuto nel 2013, e del relativo Consorzio di Tutela. Di fatto, grazie alle eccezionali caratteristiche nutrizionali di questo prodotto e al suo particolare gusto ottenuto dalla lavorazione con l’utilizzo di trafile in bronzo, la produzione di pasta gragnanese, frutto dell’attività locale di circa venti pastifici, rappresenta attualmente il 10% della produzione nazionale.
Mulino Lo Monaco – Foto: Matilde Di Muro
Un prodotto eccellente eppure composto da due semplici ingredienti lavorati magistralmente: acqua e farina. Due elementi intimamente connessi non solo per la lavorazione della pasta ma, ancora prima di questa, per la connotazione della cosiddetta “Valle dei Mulini”: un tratto dell’antica mulattiera che, dal porto di Castellammare, portava ad Amalfi e lungo cui scorreva il torrente Vernotico. Dalla sorgente della “Forma”, che prende il nome dalla parola “formale”, canale in lingua latina, sino a piazza Conceria, oggi piazza Aubry, l’acqua, col suo particolare salto idraulico del 5%, con un dislivello di 110 metri su un percorso di 2,2 chilometri, era guidata e contenuta da paratie e, lungo il suo percorso, azionava i mulini per la macina del grano.
Tra la fine del Cinquecento e il primo decennio del Seicento venne costruita una trentina di mulini lungo tutto il corso d’acqua sino al mare di Castellammare – 13 furono quelli del tratto della Valle di Gragnano – e si desume, dal modo con cui furono posizionati e costruiti e dall’ottimizzazione utilizzata per gli spazi, che furono realizzati da un unico progetto.
Nel caso di Gragnano fu smentito il preverbio che dice: “Acqua passata non macina più”. Infatti l’acqua utilizzata dal mulino più alto, in prossimità della sorgente, ritornava nel canale in modo da arrivare ad azionare il mulino successivo più in basso e così via. Questo spiega perché la distanza tra i mulini non era linearmente uniforme mentre avevano tutti la stessa distanza di quota in modo da mantenere lo stesso salto idraulico e, di conseguenza, ottenere equivalenti capacità produttive. L’acqua, arrivata dall’alto, riempiva un pozzo cilindrico, mediamente alto 8 metri e con un diametro interno variabile di circa 3 metri, posizionato fuori terra ed esternamente a ciascun mulino. Questo serbatoio, per garantire la pressione costante dell’acqua in uscita, era tenuto sempre pieno. La pressione, esercitata dal notevole volume accumulato e incrementata anche da un ugello a forma di imbuto, posto alla base del pozzo in cui era contenuta, consentiva all’acqua in uscita di muovere una ruota battendo contro le sue alette che la circondavano. Il movimento rotatorio di questa stessa ruota che, differentemente dai tradizionali mulini fluviali, avveniva in senso orizzontale e che perciò era detta “retricine”, veniva trasmesso, grazie ad un palo bloccato al suo centro, al piano superiore dove erano le macine vere e proprie.
Mulino Porta di Castello di Sopra – Foto: Matilde Di Muro
In un primo tempo, tra il 1200 e il 1500, le macine furono di pietra calcarea perché funzionali alla produzione di ‘farina bianca’ adatta alla produzione del pane. Questo tipo è ottenuto dal grano tenero che, dopo la lavorazione, restituisce un prodotto a grana fine, di consistenza polverosa e quasi impalpabile, simile al talco. Successivamente fu lavorato il grano duro che dà origine alla ‘semola’, dal caratteristico color giallo oro, adatta proprio alla produzione della pasta e che, a causa dei suoi chicchi allungati e spigolosi di consistenza molto dura, difficili da rompere, richiesero l’impiego di macine in pietra vulcanica maggiormente abrasiva. La tecnologia era la stessa per tutti i mulini che lavoravano 24 ore al giorno producendo grandi quantità di farina di ottima qualità, mantenendo intatte tutte le proprietà organolettiche grazie alla contenuta velocità del movimento delle macine e del conseguente scarso surriscaldamento. Le acque e la maggior parte dei mulini erano, all’origine dell’impianto industriale, proprietà della famiglia feudale Quiroga; qualche mulino era di proprietà dei monasteri, altri pochi di privati.
Già nel ‘500 questa intensa attività molitoria aveva reso particolarmente prospera la cittadina la quale, a metà dell’800, con la produzione della pasta, lo fu ancor di più.
Con l’avvento delle nuove tecnologie, intorno agli anni quaranta del XX secolo, l’attività cessò definitivamente ed i mulini, abbandonati, furono quasi del tutto invasi dalla vegetazione al punto da essere difficilmente individuabili. I canali che, durante l’utilizzo dei mulini, erano costantemente tenuti sgombri dai detriti e dai rami in caduta dalle pareti della Valle, in modo da evitare che venisse ostacolato il passaggio dell’acqua, divennero ricettacolo dei rifiuti più disparati. La memoria dell’antica fonte di ricchezza della città di Gragnano sembrò andare progressivamente perduta sino alla fine degli anni’80 quando si incominciò a sentire la necessità di un recupero ambientale della Valle. Iniziò la faticosa pulizia dei canali e si ipotizzò il restauro di almeno un mulino a testimonianza dell’antica e prestigiosa attività industriale.
Attualmente l’attività di bonifica dei luoghi è a buon punto e sono stati restaurati e resi visitabili due mulini: il “Mulino Porta di Castello di Sopra” e il “Mulino Lo Monaco”.
Mulino Porta di Castello di Sopra – Foto: Matilde Di Muro
L’evento FAI ai Mulini Porta di Castello di Sopra e Lo Monaco
L’evento del FAI ha portato i visitatori a conoscere proprio questi luoghi strappati all’abbandono e al degrado grazie alla passione e all’impegno di tanti volontari oltre al sostegno di privati e istituzioni. La visita ci ha condotto lungo la Valle e, grazie all’ausilio di una navetta, si è giunti al “Mulino Porta di Castello di Sopra”, il cui nome prende origine dal fatto che si trova in prossimità di quella che fu una delle porte della terza cinta muraria del borgo di Castello risalente ai tempi della Repubblica di Amalfi. Qui si può ammirare l’intero sistema di funzionamento e macina del grano ed è possibile ammirare la bellezza architettonica dei canali e dell’acquedotto sia in arrivo, alla sommità, che in partenza, alla base.
La costruzione architettonica è a volta, come per la maggior parte dei mulini, in stile arabo amalfitano, e con il tetto reso piano per avere una superficie livellata su cui asciugare il grano che veniva lavato, prima di essere macinato, in un apposito locale realizzato a fianco del mulino. Scendendo lungo la Valle, la visita ci ha poi condotto al “Mulino Lo Monaco” che ha, per la città di Gragnano, un’importanza storica notevole perché, in un documento datato 1756 del Catasto Onciario, si evince come la struttura, di proprietà del monastero di San Nicola dei Miri, fu data in fitto ad un certo Antonio Di Nola, appartenente ad una famiglia di pastai; di fatto, è evidente come l’edificio fu modificato per fare spazio alla nuova attività di pastificio. Questo ha portato gli studiosi a ritenere che il “Mulino Lo Monaco” sia stato il primo pastificio di Gragnano. Inoltre, la presenza di una ampia spianata antistante adatta all’asciugatura della pasta e le più che favorevoli condizioni climatiche del luogo contribuirebbero ad avvalorare questa tesi.
Mulino Lo Monaco – Foto: Matilde Di Muro
I visitatori sono stati accompagnati dalla guida competente e coinvolgente di Pietro Ingenito mentre l’evento si è concluso con un interessantissimo intervento di Giuseppe Di Massa, appassionato studioso e conoscitore dei luoghi nonché sostenitore e promotore della loro rinascita e riqualificazione, oltre ad essere autore di numerosi saggi di storia e cultura gragnanese, uno dei quali, dal titolo Gragnano città della pasta. Storia di Acqua, Semola e Felicità, ci è stato gentilmente offerto.
Un momento dell’incontro con Giuseppe Di Massa – Foto: Matilde Di Muro
In definitiva abbiamo compreso come l’uomo non abbia mai smesso di usare il suo ingegno per realizzare opere al fine di migliorare le proprie condizioni di vita. In questo caso particolare si è trattato dell’invenzione di un sistema tecnologicamente molto avanzato e, allo stesso tempo, di un sistema industriale ecologicamente sostenibile, visto l’utilizzo, come forza energetica per azionare le macine, del più naturale degli elementi, la sola forza di gravità, mentre l’acqua era utilizzata solo come ‘mezzo’ senza che venisse interrotto il suo ciclo naturale che è la vita sul nostro pianeta. Insomma, la Valle dei Mulini di Gragnano è uno splendido esempio virtuoso di archeologia industriale testimoniato dal FAI Vesuvio e noi di Naòs – Nel cuore dell’arte e del sapere, sempre interessati a prendere parte ai loro eventi, ve lo abbiamo raccontato.
Complimenti per l’esaustivo racconto. A presto.