L’ingresso e una delle opere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro
L’arte contemporanea si esprime sui concetti di “Altro e alterità” presso la Fondazione Made in Cloister.
La Fondazione Made in Cloister nasce, nel 2012, con un meritorio progetto di recupero e riconversione del chiostro cinquecentesco della Chiesa di Santa Caterina a Formiello a Napoli. Questo splendido esempio di Rinascimento napoletano e di archeologia industriale, che versava in uno stato di totale abbandono, è divenuto oggi uno spazio espositivo destinato al rilancio delle locali tradizioni artigianali in sinergia con il linguaggio artistico contemporaneo espresso da artisti e designers internazionali.
È all’interno di questa mission che, tra i tanti progetti attuati, nasce un programma espositivo biennale dal nome Interaction Napoli, giunto alla sua seconda edizione. Gli organizzatori, per spiegare il senso di quest’evento periodico, amano evocare una parola africana che riesce benissimo ad esprimerne il significato: Ubuntu che vuol dire “io sono perché noi siamo”. Infatti lo scopo primigenio di questo progetto espositivo è quello di interagire, confrontarsi, dialogare e, perciò, artisti di diversi Paesi, generazioni e linguaggi sono chiamati a realizzare opere site-specific rapportandosi tra loro, con lo spazio e con la comunità che li ospita e dando vita a narrazioni collettive su specifici temi scelti di volta in volta.
Dallo scorso 16 marzo, e sino al prossimo 9 novembre 2024, è possibile visitare questa seconda edizione di Interaction Napoli in cui si dialoga sul tema The Other and Otherness.
Differenti linguaggi artistici, proferiti da tutto il mondo, parlano di “altro e alterità” in un allestimento curato da Demetrio Paparoni e che si snoda lungo le pareti del chiostro di Santa Caterina a Formiello ma non solo. Sì, perché in questa edizione, per aderire maggiormente alla vocazione della Fondazione Made in Cloister a dialogare con il tessuto urbano e le sue testimonianze storiche, si è scelto di usare anche altri tre luoghi come spazi espositivi off site quali il chiostro del Liceo Artistico di Napoli, il cortile di Palazzo Caracciolo e il Parco di re Ladislao.
Il progetto artistico di quest’anno, parlando di “altro e alterità”, mette al centro i soggetti e le questioni proprie dell’interazione stessa: “chi è l’altro?” e “com’è possibile relazionarsi ad esso e alle sue diversità?”
Il concetto di alterità ci fa, istintivamente, pensare a ciò che sembra essere molto lontano da noi, al diverso per le più svariate ragioni: per il colore della pelle, la diversa provenienza, cultura, religione, lingua, filosofia di vita, usi, costumi e chi più ne ha più ne metta. Insomma, l’altro è l’abitante di un mondo in cui i valori sono incompatibili rispetto ai nostri e, in quanto tale, non ha una precisa collocazione geografica: potrebbe trovarsi a pochi metri da noi così come all’altro capo del mondo. Possiamo scegliere di non far parte di questo mondo altro ma non sempre possiamo evitare di relazionarci con esso mentre, purtroppo, molto spesso, si finisce per entrarne in conflitto mentre basterebbero piccoli sforzi per comprendere le ragioni di quella diversità o anche per apprezzarne il senso.
Una delle opere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro
A partire da queste riflessioni, 30 artisti, attraverso varie tecniche e svariate forme, si sono confrontati sul tema delle relazioni, non sempre facili, tra le diverse culture, tradizioni e religioni. Espongono 14 artisti italiani, tra cui Domenico Bianchi, Giuditta Branconi e Gianluigi Colin, ed altri provenienti da tutto il mondo come, citandone solo alcuni, Troy Makaza dello Zimbabwe, Andres Serrano degli Stati Uniti, i norvegesi Henrik Placht e Mortem Viskum, Samuel Nnorom della Nigeria e altri ancora.
Il concetto di diversità si percepisce innanzitutto da una miriade di colori e dai molteplici linguaggi che accolgono e incuriosiscono il visitatore che è inevitabilmente stimolato a interagire in maniera percettiva e personale.
Nel chiostro di Santa Caterina a Formiello le opere si susseguono lungo le pareti laterali del porticato, ma invadono anche la parte centrale in cui vi è l’antico essiccatoio ligneo recuperato e riportato al suo antico splendore. Ci sono opere figurative e astratte, collage fotografici, istallazioni polimateriche, opere tessili e sculture iperrealistiche.
Una delle opere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro
Al centro campeggia un tubo luminoso che, sinuoso, volteggia per parlare d’instabilità metereologiche e di squilibrate dinamiche sociali: è un’istallazione aerea dal titolo “US2-Migration”, realizzata dal coreano Jung Hye Ryun.
Di fatto, ogni opera affronta un aspetto diverso della stessa tematica: si parla di sfruttamento e abuso delle tecnologie, di macchine dotate di intelligenza artificiale, di capitalismo e neocolonialismo, razzismo e globalizzazione, schiavitù e flussi migratori, di natura violata e difficile accesso ai mezzi di sostentamento, ma anche di guerra, come fa il norvegese Mortem Viskum con una scultura iperrealista in cui si autoritrae sovrapponendo le proprie sembianze a quelle di Putin.
Presso il Liceo Artistico Statale di Napoli, situato nel seicentesco Complesso Monumentale dei Santi Apostoli, armonicamente incastonato nel pieno centro antico di Napoli tra i cardini e i decumani di memoria romana, per Interaction Napoli 2024 espone l’artista cinese Liu Jianhua attraverso l’istallazione dal titolo Monumenti: statue antropomorfe in cartapesta che svettano su piedistalli di ceramica e che, guardando il visitatore dall’alto, fanno riflettere sul tema dell’altro e dell’accoglienza e, allo stesso tempo, ci invitano ad abbandonare ognuno il proprio punto di vista per cambiare prospettiva e poterne leggere l’universalità del messaggio. L’artista, con le sue creazioni contemporanee, ha saputo fondere le proprie matrici culturali con le antichissime pratiche artigianali locali: per i piedistalli si è affidato all’abilità del ceramista vietrese Francesco De Maio e, per le realizzazioni in cartapesta, al nolano Carlo Nappi, che ha appreso questa antica arte dalla tradizione della costruzione dei Gigli, otto altissime torri piramidali in legno e cartapesta portate in processione in occasione della festa in onore del santo patrono di Nola, San Paolino.
Una delle opere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro
L’artista italiano Daniele Galliano espone, invece, nel Palazzo Caracciolo, una antichissima residenza signorile le cui origini risalgono all’epoca angioina e che oggi è sede di uno degli alberghi più belli di Napoli. L’opera, dal titolo Famija, è composta da sette vasi in ceramica dipinta, realizzati in collaborazione con FACC (Faenza Art Ceramic Center). Sono preziosi e raffinati manufatti antropomorfi, a memoria degli antichi vasi canopi egizi ed etruschi, attualizzati per funzionare da oggetti tra il design e l’arte contemporanea. A ognuno di essi l’artista ha dato un nome, proprio come membri di una vera famiglia, e sono: Listulo, Lastaia, Pistaia, Astulo, Pastaia, Anciulo e Pinciula. Tutti e sette sembrano compiere un rito tribale con i loro corpi segnati da libere pennellate di nero su fondo bianco e da alcune tracce preziose in color oro attraverso cui il pittore suscita emozioni e racconta personalissime visioni surreali.
E veniamo all’ultima esposizione offsite presso il Parco re Ladislao, uno storico e grazioso esempio di giardino medievale recintato e posto a ridosso della Chiesa di San Giovanni a Carbonara. Con le sue geometriche aree verdi esso svela la sua originaria vocazione a beneficio dei frati dell’antico monastero annesso che vi passeggiavano durante le ore di meditazione e, allo stesso tempo, lo utilizzavano per la coltivazione di piante aromatiche ed erbe mediche. Qui espone l’artista peruviana Ximena Garrido-Lecca con l’opera dal titolo The Herbalist, creata grazie alla collaborazione e al lavoro degli artigiani dell’antica Fonderia Di Giacomo, situata a Napoli nel quartiere Sanità. Si tratta di sculture, realizzate in bronzo e ottone con l’antichissimo metodo della fusione a cera persa, che simulano una struttura per l’essiccazione delle erbe. Questa pratica, propria dell’arte erboristica, era attuata nei monasteri durante il Medioevo esclusivamente dai monaci che estromettevano, da questa attività e dalle sue metodiche, le donne.
Una delle opere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro
L’opera, portando allo scoperto le strutture di potere e l’antico, ma purtroppo tanto attuale, pregiudizio patriarcale della conoscenza, è un omaggio a queste donne e a tutte quelle che ne sono ancora vittime e, allo stesso tempo, fa memoria della tradizione artigianale e dell’abbandono degli spazi rurali come effetto dei processi di modernizzazione.
Tutto questo racconto testimonia un’arte profondamente umana che pone l’attenzione sui tanti comportamenti disumani che scaturiscono ogni qual volta l’uomo non entra in relazione positiva con il suo simile.
È un’arte di denuncia che nasce dalla speranza di poter finalmente annientare la paura del diverso e guardare all’altro come una grande risorsa a vantaggio di quell’arcobaleno di colori che ha bisogno di tutte le possibili sfumature per poter essere quell’affascinante spettacolo che, ogni qual volta appare, ci lascia stupefatti.
Gli artisti che interagiscono tra loro e con lo spazio che li ospita hanno la pretesa di voler contribuire a dare al termine alterità la forza del cambiamento e della trasformazione. E dunque non si tratta di una semplice esposizione ma, piuttosto, di una profonda possibilità di riflessione sull’urgenza della relazione: un messaggio chiaro, radicato in tutte le culture popolari, eppure troppo spesso disatteso e ignorato.
Una delle opere in esposizione – Foto: Matilde Di Muro