Rilievo con Apollo e tre ninfe, II sec.d.C. – MANN, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis

Il mito di due uomini sfortunatamente…primi! – Giacinto

Da sempre, ma forse ancor di più nella nostra epoca, l’uomo cerca di primeggiare nei confronti dei suoi simili, e in questa sua ambizione, nel suo desiderio di evidenziarsi rispetto agli altri e di essere il primo, arriva spesso al limite, ma anche oltre, del giusto e del lecito. Ma non sempre essere i primi si rivela una cosa positiva e portatrice di fortuna e invidia, per rendervene conto vi basterà leggere di Giacinto e Protesilao, due uomini ‘primi’…per loro sfortuna!

Giacinto era un principe spartano figlio di Amicle, re di Sparta, e Diomeda (secondo altre fonti era, invece, figlio di Pierio e della musa Clio); talmente bello da essere stato il ‘primo’ per ben due volte: fu, infatti, il primo uomo ad essere amato da un altro uomo, ma anche da un dio. Fu Apollo ad innamorarsene il quale, mal sopportando l’idea di dover dividere il suo amato con un mortale, tale Tamiri, per liberarsi del suo avversario usò uno stratagemma del tutto simile a quello già usato con Leucippo. Tamiri, peraltro nipote di Apollo in quanto figlio di Filammone, a sua volta figlio del dio, e della Ninfa Argiope, oltre ad essere molto bello, era un ottimo cantante e suonatore di cetra, ma aveva la pessima abitudine di vantarsi di essere più bravo anche delle Muse. Ad Apollo bastò riferire questo alle Muse per dar vita ad una sfida musicale del tutto impari, in cui era stato concordato che se avesse vinto Tamiri avrebbe fatto l’amore con tutte le Muse, mentre, se avesse perso, le Muse lo avrebbero privato di qualunque cosa esse avessero voluto. Inutile dire che Tamiri perse la sfida e le Muse lo privarono della vista e dell’abilità di suonare la cetra e, secondo altri, anche della voce e della memoria.

A questo punto Apollo si dedica esclusivamente al suo amato Giacinto; con lui, dice Ovidio “più nulla gli importava della cetra e delle frecce: dimentico di sé stesso, non disdegnava di portare reti, di custodire i cani, di accompagnarti per le balze di monti impervi, alimentando con la lunga intimità la sua passione.”(Ovidio – Metamorfosi libro X vv.170-174). Un giorno i due teneri amanti stavano facendo una gara di lancio del disco e Apollo lanciò per primo il suo; si può ben immaginare come possa essere lanciato un disco da un dio e come un giovane innamorato corra a raccoglierlo prima ancora che questo cada sul suolo. Sfortunatamente il disco cadde su un pezzo di terra particolarmente duro e il rimbalzo indirizzò il disco verso Giacinto che fu colpito proprio in volto e ferito mortalmente; neanche Apollo, con le sue arti mediche, riuscì ad evitargli la morte. Affranto dall’aver causato la morte del suo amato, Apollo avrebbe voluto pagare con la sua stessa vita, “Ma poiché la legge del destino me lo vieta, sempre nel cuore t’avrò e sempre sulle mie labbra sarai. Ti celebreranno i miei canti al suono della lira e in te, rinato fiore, porterai scolpiti i miei lamenti. Verrà poi un giorno che anche un eroe (Aiace n.d.r.) senz’altri pari a te si unirà in questo fiore, mostrando sui petali il suo nome.” (Ovidio – Metamorfosi libro X vv.203-208). A questo punto, con Giacinto tra le braccia di Apollo, il sangue che scorreva nel prato si trasforma in un fiore simile al giglio ma di colore purpureo, appunto, il giacinto (ma secondo alcuni sarebbe una varietà di giglio) e, proseguendo con le parole di Ovidio, “non ancora contento, Febo, autore di questo onore a Giacinto, verga sui petali di propria mano il suo lamento: AI AI, cosi sul fiore è scritto, lettere che esprimono cordoglio.” (Ovidio – Metamorfosi libro X vv.214-216). A questa tenera versione di Ovidio, c’è da aggiungerne un’altra secondo cui del bel principe si era invaghito anche il Vento dell’Ovest (Zefiro, a dire di Pausania) e, secondo questa versione, fu proprio il gelosissimo vento a uccidere il giovane, fermando a mezz’aria il disco lanciato da Apollo e rimandandolo indietro fino a colpire Giacinto in pieno volto e ucciderlo, così come racconta lo stesso Apollo a Hermes nei Dialoghi degli Dei di Luciano di Samosata: “Imparava a lanciare il disco e io giocavo assieme a lui, quando Zefiro, il più maledetto dei venti, anch’egli da tempo innamorato di lui, non essendo corrisposto e non sopportandone il disprezzo fece questo: come eravamo soliti, io lanciai il disco verso l’alto, e quello, soffiando dal Taigeto, lo spinse fino a scagliarlo sulla testa del ragazzo, cosicché in seguito al colpo uscì molto sangue e il ragazzo morì all’istante. Ma io respinsi subito Zefiro colpendolo con le frecce e inseguendolo mentre fuggiva fino al monte, quindi scavai una tomba per il ragazzo ad Amicle, dove il disco l’aveva colpito, e feci in modo che dal sangue la terra generasse un fiore soavissimo, Hermes, il più bello tra tutti i fiori, che porta ancora incise lettere di compianto per il morto.” (Luciano di Samosata – Dialoghi degli Dei XVI – 2 – Ermes e Apollo). Anche in questo caso, come avete letto, Apollo trasformò Giacinto nel fiore che porta il suo nome, ma al suo interno vi era incisa la sua iniziale in greco, ‘Y’, o il lamento del dio, come già detto.

Nel prossimo articolo il mito del secondo sfortunato uomo ad essere arrivato primo: Protesilao.

Antonio Canova, Apollo che si incorona (1781/82) – The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, USA – Foto: Giorgio Manusakis

Un pensiero su “La sfortuna di essere i primi (parte 1)”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *