La zona centrale della villa con il doppio ordine di colonne – Foto: Stefania Rega

La Villa B di Torre Annunziata

Il nostro Paese annovera, tra i beni storico-artistici del suo sconfinato patrimonio, elementi di diversa natura ed estensione: dai grandi siti archeologici del mondo antico, a mirabili esempi di chiese delle più svariate architetture, dai palazzi e castelli di epoche lontanissime e vicine alle cittadine medievali, dalle dimore storiche ai palazzi lussuosi di famiglie nobiliari. Ma l’Italia è anche il paese di minuscoli gioielli semi sconosciuti o totalmente ignorati, talvolta nascosti nel cuore delle grandi metropoli, talvolta protetti dalla solitudine di luoghi impervi oppure estranei ai flussi del turismo di massa. Di questi gioielli invisibili o trascurati, chiusi per mancanza di fondi o di interesse, lasciati all’incuria e alle sferzate del tempo, si occupa meritoriamente il FAI, Fondo per l’Ambiente Italiano. In Campania, territorio particolarmente ricco di testimonianze storiche e artistiche di immenso valore, nonché di beni paesaggistici tra i più incantevoli, l’associazione si è clonata in FAI Vesuvio. Una sessantina di agguerritissimi volontari che setacciano il territorio alle falde del notissimo vulcano alla ricerca di siti da curare, mostrare, valorizzare. Tra questi, un vero e proprio gioiello archeologico che da quarant’anni annaspa tra le spire della burocrazia e della noncuranza: la cosiddetta Villa B di Torre Annunziata, provincia di Napoli. I volontari del FAI Vesuvio hanno curato l’accesso al sito, organizzando una serie di visite guidate in una delle giornate del FAI di Primavera, il 20 aprile scorso. Gli accessi disponibili sono andati esauriti nel giro di una giornata, a testimonianza del vivo interesse della popolazione per la propria storia e cultura.

Una piccola rappresentanza del gruppo del FAI Vesuvio – Foto: Stefania Rega

Il sito è parte, come la più nota Villa di Poppea Sabina, dei cosiddetti scavi di Oplontis, un nome attestato unicamente nella Tabula Peutingeriana, copia medievale di un’antica mappa relativa alle strade esistenti in Italia all’epoca dell’Impero Romano. In questa carta il toponimo Oplontis indica alcune strutture posizionate tra Pompei ed Ercolano, un’area che attualmente fa capo alla città di Torre Annunziata, appunto.

La denominazione alfabetica della Villa B si riferisce alla successione con la contigua Villa A, la già citata Villa di Poppea Sabina, patrimonio dell’UNESCO e da anni aperta alla pubblica ammirazione. Ma a differenza di quest’ultima, elegantissima dimora destinata all’otium e abbellita da affreschi strabilianti, la Villa B era con ogni probabilità una costruzione destinata ad attività di produzione e commercializzazione di prodotti agricoli provenienti dalla zona circostante, vino in particolare.

Il suo ritrovamento risale al 1974 durante i lavori di scavo per la costruzione della palestra di una scuola. In questi 40 anni, gli scavi hanno fatto progressi che si possono definire modesti. I lavori più recenti si devono ad una equipe di studiosi di una università degli Stati Uniti, momentaneamente interrotti. Molto resta ancora da fare, sia per riportare alla luce quanto ancora consentono le abitazioni moderne che incombono direttamente sullo scavo, sia in termini di messa in sicurezza dell’intero sito.

La proprietà della villa è attribuita a tale Lucius Crassius Tertius in virtù di un sigillo di bronzo ritrovato durante gli scavi che ne riporta il nome. La sua edificazione risale alla fine del II secolo a.C., anche se in seguito fu variamente ampliata. È composta da un ampio cortile centrale racchiuso da un colonnato in doppio ordine – che fa un certo effetto vedere di nuovo in piedi grazie alla perfetta ricollocazione delle colonne in tufo grigio di Nocera.

Il cumulo di anfore vinarie impilate – Foto: Stefania Rega

Al livello inferiore si apre una serie di locali utilizzati come magazzini, a giudicare dai materiali rinvenuti all’interno. È lì che si assiste ad uno degli spettacoli più suggestivi: in un angolo sono raccolte, capovolte ed inserite l’una nell’altra, numerose anfore vinarie, ancora invischiate ai lapilli dell’eruzione del 79 d.C. A guardarle sembrano essere state messe lì ieri mattina.

Su un altro versante sono allineati altri magazzini con copertura a volta. In uno di essi 54 individui trovarono la morte nel tentativo di ripararsi dalla furia dell’eruzione con una dinamica molto simile a quella ricostruita ad Ercolano. Insieme ai resti dei corpi sono stati trovati molti oggetti preziosi, monete d’oro e d’argento e gioielli di fattura estremamente raffinata. È stata ritrovata anche una preziosa cassaforte lignea decorata in bronzo e ferro. Infine, il piano superiore sembra che fosse destinato alle abitazioni, probabilmente dei proprietari. Lì gli ambienti sono decorati con pitture in IV stile. Sul lato nord dell’edificio invece vi sono delle piccole strutture indipendenti a due piani, affacciate su di una strada che le separa da altri edifici presenti sul lato opposto. È probabile che fossero botteghe, con un piano superiore ad uso abitativo.

I magazzini in cui sono stati ritrovati i corpi – Foto: Stefania Rega

La villa infatti era una delle costruzioni di una zona periferica del brulicante centro abitato di Pompei dove si potevano trovare abitazioni private di solito piuttosto lussuose, proprietà di ricche famiglie che vi trascorrevano per lo più periodi di riposo, davanti al mare e immersi nel calore del sole. Ma c’erano anche centri amministrativi e produttivi, estese costruzioni adibite a diverse attività di produzione e conservazione dei prodotti che la terra fertile della Campania Felix regalava.

Si dimentica troppo spesso che la imponente eruzione del 79 d.C. coprì un territorio vastissimo, che era in buona parte abitato. E quelle abitazioni, insieme alle persone che lì vivevano, agli oggetti che utilizzavano, alle strade che percorrevano, oggi sono parzialmente ancora sotto i venti e più metri di lapilli, ceneri e altri materiali fuoriusciti dal ventre del vulcano. L’esistenza degli estesissimi scavi di Pompei dell’ultimo secolo è il frutto di una fortunata combinazione grazie alla quale sopra una fetta importante dell’antica città non è stata costruita una città moderna, cosicché è stato possibile effettuare campagne di scavo su larga scala. Laddove, come a Torre Annunziata e ad Ercolano, la nuova città è sorta – nei secoli – sui tetti di quella antica, gli scavi hanno dovuto e devono tuttora fermarsi. Allora come oggi, la zona vesuviana ha una forte densità abitativa. Non possiamo dire quante altre Pompei, Ercolano e quante ville sono ancora sepolte sotto le fondamenta delle abitazioni e degli edifici delle tante città moderne che affollano le falde del vulcano, notoriamente una delle zone a più alta intensità abitativa del pianeta. Perché, allora come oggi, la bellezza del paesaggio, la dolcezza del clima, la fecondità della terra e la bontà dei suoi frutti esercitano una attrazione potentissima, contro la quale nulla o poco può persino il pericolo concreto di altre eruzioni.

La città moderna che incombe sullo scavo – Foto: Stefania Rega

È pur vero che la coesistenza di antico e moderno talvolta lascia senza fiato. Vedere la città moderna che appoggia i piedi sulla testa di quella antica, quasi ne fosse un prolungamento, emoziona e rende più acuto il senso della fragilità dei resti antichi, dello stato di incombente e costante pericolo in cui versano per la loro stessa natura. Oltretutto, l’archeologia ha ormai un passato abbastanza lungo da poter dimostrare come i resti recuperati – e in particolare quelli inseriti all’interno del flusso del turismo di massa – sono destinati ad un degrado lento ma inesorabile. Nulla conserva in maniera altrettanto efficace di venti metri di lapilli vulcanici. Eppure, nulla impedirà mai all’uomo di disseppellire ciò che la natura ha seppellito, in un atto di amore e conoscenza che darà nel tempo i suoi frutti avvelenati. È singolare che l’accesso alla Villa di Lucio Crasso del 20 aprile sia stato gestito da un’associazione di volontari. Singolare ed emblematico. In un Paese così ricco di storia e cultura come l’Italia, i fondi forse non potrebbero mai bastare per sostenere la ricerca e la manutenzione di così tanti e vasti siti. Il lavoro dei volontari, in questo e in altri ambiti, è da sempre un aiuto prezioso. I volontari del FAI e del FAI Vesuvio non si sottraggono al loro ruolo e affrontano il difficile compito di valorizzare il territorio misurandosi con la farraginosa burocrazia nostrana e con la difficoltà di reperire gli indispensabili fondi facendo affidamento sulle donazioni dei privati. Nello stesso tempo si adoperano per lasciare un segno tangibile nel tessuto sociale. Stringono collaborazioni con i Comuni, alle scuole propongono il progetto Apprendisti Cicerone grazie al quale gli studenti imparano non solo a conoscere i beni artistici del territorio ma anche a farsene protettori e divulgatori e accompagnano i visitatori svolgendo il ruolo, appunto, di Ciceroni; alla popolazione propongono attività ed incontri per mettere in mostra il lavoro che svolgono ma anche per stimolare la conoscenza e la cura del territorio che è di tutti, e quindi va protetto da tutti.

Il cumulo di anfore vinarie impilate – Foto: Stefania Rega



Un pensiero su “Un sito per la produzione agricola nel cuore dell’otium romano”
  1. Grazie per lo stupendo articolo pubblicato. Come volontario FAI VESUVIO condivido pienamente quanto scritto. Abbiamo gestito questa Giornata con sacrificio ed impegno, ma soprattutto con spirito di squadra (che è più importante e che ci caratterizza).
    Seguiranno a breve altre giornate del genere sul territorio delle quali (tramite il nostro sito FAI ed i nostri social) vi terremo aggiornati. Ben felici di avervi nostri ospiti.
    Pasquale Prete

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