Now breathe – Ilva plant, Taranto – Foto: Alberto Vaccaro – Licenza: Creative Commons CC BY 2.0 da Flickr

È di pochi giorni fa la notizia dell’annullamento delle condanne ai proprietari e agli amministratori dell’ILVA di Taranto nell’ambito del processo “Ambiente svenduto”.

Il 3 settembre, la sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’Appello di Lecce ha annullato la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Taranto nell’ambito del processo “Ambiente svenduto” per il disastro ambientale causato dallo stabilimento siderurgico ILVA.

La Corte d’Assise ha trasferito gli atti alla Procura di Potenza competente per i procedimenti penali che concernono i magistrati degli uffici giudiziari di Taranto. La decisione della Corte d’Assise d’Appello di Lecce, che ha già suscitato i primi dubbi, è destinata a far discutere. Per comprendere al meglio la questione, è necessario fare un passo indietro per provare a ricostruire almeno le ultime battute della lunga vicenda processuale dell’acciaieria più grande d’Europa.

Il preambolo: la sentenza del maggio 2021

Siamo nel maggio 2021 quando vengono condannate in primo grado 26 persone tra cui gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria, Fabio e Nicola Riva, l’ex presidente della regione Puglia, Nicola Vendola, e l’ex presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido. Il processo è consistito in 332 udienze, 33 capi di imputazione e 200 ordinanze tutte volte a dimostrare che lo stabilimento siderurgico di Taranto, con il susseguirsi degli anni e delle diverse gestioni, era gestito illegalmente. In particolar modo, le accuse consistevano nella colpevole e consapevole omissione di adeguare l’impianto a sistemi minimi di ambientalizzazione e di sicurezza mettendo così a rischio l’integrità fisica dei lavoratori dell’ILVA e degli abitanti del quartiere Tamburi di Taranto, adiacente all’acciaieria. Il rischio si è poi concretizzato: solo nel quartiere Tamburi l’inquinamento industriale ha alzato l’incidenza dei tumori infantili al 54% in più rispetto alla media pugliese mentre si è riscontrato un aumento del 21% in più della media regionale di mortalità infantile. Nel rione, dove le pareti delle case sono diventate rosse a causa del minerale, ognuno ha familiari o conosce persone morte di tumore. Le modalità gestionali dell’impianto siderurgico sono andate molto oltre le mere scelte industriali: durante il processo è infatti emerso che le autorità locali e non, coinvolte su vari livelli, investite dei poteri di autorizzazione e di controllo sullo stabilimento, hanno agito in associazione tra loro perseguendo come unico obiettivo il profitto e la produzione. In tribunale si è dimostrato che i dirigenti e i fiduciari dello stabilimento ottenevano così avanzamenti di carriera e vantaggi personali: quello che si era venuto a costituire era un vero e proprio disegno criminoso volto a violare ed eludere la legge e che aveva come unico fine quello di aumentare la produzione e ottenere vantaggi. Tutto ciò è durato 17 lunghi anni in cui, se da una parte si era creato un giro di nomine e profitti, dall’altra c’erano e ci sono le famiglie tarantine costrette a vivere in un ambiente sempre più inquinato e pericoloso. Per questi motivi, nel maggio 2021, la Corte d’Assise di Taranto aveva emesso 26 condanne nei confronti dei vari soggetti coinvolti a vario titolo nella cattiva gestione dell’acciaieria.      

…and Caution to the Fire – Foto: Menandros Manousakis

Il clamoroso annullamento da Lecce

La vicenda processuale sembrava finalmente essersi assestata poiché, durante il corso delle udienze, si era formato un quadro chiaro della stessa e si era riusciti a ricondurre le dovute responsabilità ai soggetti che avevano agito o in alcuni casi non agito, pur dovendo invece farlo. D’altro canto, come anticipato prima, la Corte d’Assise d’Appello di Lecce ha annullato la sentenza di condanna affermando sostanzialmente che il processo è tutto da rifare in altro luogo. Ed è proprio questo il punto che sta facendo molto discutere: i giudici di Lecce hanno accolto le eccezioni di incompetenza territoriale sollevate dai difensori degli imputati affermando che i giudici di Taranto, in quanto tarantini, non possono decidere nel merito la causa. In altre parole i giudici di Taranto, poiché provengono dallo stesso territorio che l’ILVA ha martoriato per anni, non sono stati considerati sufficientemente imparziali e sono loro stessi parte lesa nella vicenda dell’ILVA. Il concreto rischio di questa decisione è che il processo si allunghi ulteriormente, i reati vadano in prescrizione e si finisca nell’impunità. Oltre ai problemi tecnici derivanti dalla lungaggine del processo viene naturale chiedersi cosa si intenda per parte lesa. In base all’articolo 90 del codice di procedura penale si qualifica la persona offesa come il soggetto titolare del bene giuridico leso dalla violazione della norma giuridica che lo tutela e diviene parte civile se, danneggiato dal reato, si costituisce nel processo esercitando così l’azione risarcitoria. Ciò pone un problema significativo poiché affermare che i giudici di Taranto siano parte lesa significa affermare che questi abbiano subito un danno diretto dall’azione inquinante dell’acciaieria, tanto da poterlo farlo valere nelle sedi giudiziarie. Dal momento che non si hanno riscontri di ciò, poiché non è emerso che i giudici abbiano parenti deceduti o abbiano subito danni diretti, la decisione della Corte di Lecce appare quantomeno peculiare. È come se si fosse affermato che un reato come truffa ai danni dello Stato, che lede l’intera comunità nazionale, non possa essere giudicato da un giudice nazionale perché questo sarebbe parte lesa o ancora è come se si fosse affermato che i giudici campani, in quanto potenziali danneggiati dall’inquinamento derivante dalla “terra dei fuochi”, non avrebbero potuto celebrare il processo. Al di là di tutti i dubbi che la pronuncia ha suscitato, rimane fermo un dato incontrovertibile: i tarantini, e in particolare gli abitanti del quartiere Tamburi, da decenni vivono in condizioni insostenibili, in piena violazione dei loro diritti fondamentali. Il diritto ad un ambiente salubre, il diritto alla casa e ad una vita dignitosa sono stati sacrificati sull’altare del profitto da una gestione e da un’amministrazione scellerata che non si è preoccupata di tutelare i cittadini e i lavoratori dell’acciaieria. Taranto è diventata l’emblema di questo sacrificio, della scelta estrema tra vita e lavoro: una scelta che non dovrebbe esistere.

Specifiche foto:
Titolo: Now breathe – Ilva plant, Taranto
Autore: Alberto Vaccaro
Licenza: Creative Commons CC BY 2.0 da Flickr
Link: https://www.flickr.com/photos/gin_fizz/2220514386
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