L’Hortus conclusus – Foto: Matilde Di Muro
Da un giardino chiuso un messaggio di armonia e di pace con cui aprirsi alla storia e al mondo.
Siamo nel 2024 che, ormai, volge alla sua conclusione e vi parliamo di un’installazione realizzata nel 1992 dall’artista Mimmo Paladino. Sono trascorsi ben 32 anni, eppure questa è una di quelle tante opere senza tempo perché capace, pur evocando tempi antichissimi, di sollecitare la consapevolezza dei tempi attuali. Hortus conclusus è il titolo dell’opera e siamo subito portati indietro nel tempo.
L’espressione latina, traducibile in italiano come “giardino recintato”, ci fa pensare ai giardini medievali racchiusi in conventi e monasteri: spazi verdi di modeste dimensioni, circondati da alte mura in modo da essere protetti e irraggiungibili da occhi indiscreti, dove i monaci coltivavano essenzialmente piante e alberi per scopi alimentari e medicinali, ma capaci, soprattutto, di donare pace e quiete necessari alla lettura e alla meditazione.
Foto: Matilde Di Muro
Il “giardino recintato”: dalla Bibbia al Decameron, un luogo di svago, ozio e preghiera
Ma la loro origine è ancor più lontana se pensiamo ai giardini racchiusi nelle ville dell’antica Roma o al pairi-daeza, il giardino del paradiso, di antica origine iraniana, dove i cinque sensi sono armonicamente sollecitati da una miriade di colori, dal mormorio delle acque che scorrono e zampillano in ruscelli e fontane oltre che da alberi da frutto, piante aromatiche e fiori selezionati per le loro profumate fragranze. In questi luoghi, oggi ancora visitabili in Andalusia e nel nord Africa, progettati per passeggiare, riposare, riflettere e contemplare le meraviglie del creato, si gustano a pieno le gioie del paradiso terrestre, lo stesso in cui, come si racconta nel primo libro della Bibbia, abitarono, in principio, i nostri progenitori Adamo ed Eva: «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. […] Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.» (Genesi 2, 8-15)
Si deve all’imperatore Federico II di Svevia il merito di aver conservato e diffuso la tradizione dei giardini arabo-normanni facendoli costruire nei suoi castelli, mentre, con la diffusione delle prime comunità monastiche occidentali, l’hortus conclusus divenne soprattutto centro spirituale e intellettuale della vita del monaco. Benché la riscoperta del “giardino recintato” in periodo medievale può dirsi opera dei religiosi, successivamente se ne ebbe uno sviluppo soprattutto laico e particolarmente in Toscana. Qui, alle soglie del Rinascimento, grazie alla presenza di una classe borghese colta e benestante, esso tornò ad essere luogo di riposo e di ozio intellettuale come ai tempi della Roma imperiale. Ci dà testimonianza di ciò Boccaccio che, intorno al 1350, nel suo Decameron, ci parla di un giardino all’interno di un palazzo sulle pendici di Fiesole dicendo: «… fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio, che tutto era da torno murato, se n’entrarono […] Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai parti vie ampissime; e tutte allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano […] Le latora delle quali vie tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse […] Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare […] Nel mezzo del quale […] era un prato di minutissima erba […] chiuso dintorno di verdissimi e vivi aranci e cedri […] Nel mezzo del qual prato era una fonte di marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli.»
L’Arco di Traiano – Foto: Matilde Di Muro
La reinterpretazione dell’hortus da parte di Mimmo Paladino
Questo breve excursus, sulle origini e sulle evoluzioni di questa tipologia di luogo, ci aiuta a comprendere la poetica che è possibile leggere, sia pure tradotta in chiave moderna, visitando l’Hortus conclusus realizzato da Mimmo Paladino con la collaborazione degli architetti Roberto Serino e Pasquale Palmieri e del lighting designer Filippo Cannata.
Siamo a Benevento, capoluogo di provincia campano dalle antichissime origini sannite che conobbe grande importanza in epoca romana, come testimonia il bellissimo e imponente Arco di Traiano, tra gli antichi monumenti onorifici di questo tipo meglio conservati, facente parte del Patrimonio dell’umanità UNESCO assieme alla Chiesa di Santa Sofia e all’annesso chiostro, emblema del ruolo di capitale di un ducato, poi principato, longobardo. Passeggiando per l’elegante Corso Garibaldi, una delle strade principali del centro storico, e addentrandosi lungo il Vico Noce ci si imbatte in questa sorprendente opera di arte moderna: un luogo appartato e quasi segreto che si offre al visitatore come oasi di pace e meditazione.
L’interno della chiesa di Santa Sofia – Foto: Matilde Di Muro
Infatti, l’installazione permanente del maestro della Transavanguardia Italiana è racchiusa dalle mura dell’antico Convento di San Domenico, assieme ad alcune ricostruite in mattoni ed inserti in metallo che si ispirano a quelle difensive della Benevento di epoca longobarda, ricreando così un giardino “chiuso e segreto”.
L’ambiente, se da un lato, tra opere d’arte e fontane, ci rimanda alla tradizione classica dei giardini romani e rinascimentali, dall’altro sembra invitarci a compiere una sorta di cammino interiore, passando da una zona più chiusa ad una più aperta e luminosa e, allo stesso tempo, ci porta ad intraprendere un percorso della memoria grazie ad una serie di rimandi storico-simbolici propri del territorio.
Varie opere bronzee, realizzate dall’artista Paladino, si accompagnano a pezzi di colonne, capitelli e frontoni, evocando un mondo mitologico e la storia sannitico-longobarda di Benevento mentre anche la pavimentazione ci ricorda quella dei vicoli storici dei paesi della provincia beneventana. La presenza degli elementi naturali ci riporta, chiaramente, alla tradizione dell’hortus conclusus e, in particolare l’acqua, che con il suo rumore sottolinea il silenzio e favorisce il fluire dei pensieri, sgorga da una serie di fontane. Tra queste una, in particolare, attira la nostra attenzione per la sua forma umanoide dalle lunghe braccia protese in avanti e sulle quali sbocciano piccole teste. Alcune di esse si trovano su di una sorta di ombrello capovolto e altre sono sparse nell’ambiente. Sul fondo del giardino si trova una struttura architettonica bassa di colore rosso che ospita un’altra fontana con una grande vasca e una panchina realizzata con blocchi di cemento colorato.
Fontana umanoide – Foto: Matilde Di Muro
Dalle piante al motivo del cavallo
La scelta delle piante non è affatto casuale poiché ciascuna di esse è portatrice di un preciso significato sacro: le palme sono simbolo di gloria e martirio, le rose simbolo del sangue di Cristo, i gigli di purezza, gli ulivi di pace, il bambù di rigore morale, l’albero di Giuda di rinascita ed un castano, infine, di semplicità.
Tra le varie opere installate, quella più interessante e suggestiva è senza dubbio quella del Cavallo di bronzo che si erge maestoso su di un muro di cinta mentre sembra dominare, da un lato, sull’Hortus e, dall’altro, sulla parte bassa della città.
Tradizionalmente compagno dell’uomo nelle battaglie come nella vita quotidiana del mondo antico, il cavallo, che è un elemento ricorrente nelle opere di Paladino, in questo caso indossa una maschera d’oro come quella di Agamennone che lo rende quasi divino e sembra evocare le antiche popolazioni sannitiche e il mito del cavallo di Troia.
Il ‘Cavallo di bronzo’ – Foto: Matilde Di Muro
A terra, un grande disco di bronzo, che sembra piovuto dal cielo come strumento di difesa, ha anche la funzione di fontana: l’acqua che sgorga dalla sua sommità viene raccolta in un catino, che sembra un oggetto preso dalla vita quotidiana del passato, con i manici resi lucidi dall’usura del tempo. Nel 2005, a 13 anni dalla sua realizzazione, l’intero complesso è stato interessato da un primo intervento di ristrutturazione supervisionato dallo stesso Mimmo Paladino e, in quell’occasione, vi fu l’aggiunta di un chiosco ottagonale, opera di Alessandro Mendini.
La struttura, che oggi è anche utilizzata per concerti, conferenze e rappresentazioni teatrali, resta un’installazione di notevole pregio perché, più che un’opera da visitare, è un’esperienza da vivere. L’artista ci invita ad entrare in un mondo a parte che non ci rende estranei alla realtà ma piuttosto ci aiuta, ripercorrendo in maniera suggestiva la storia, a prendere consapevolezza delle comuni origini, a ripercorrere un vissuto ottusamente dimenticato, a ritrovare quell’armonia tra uomo e natura che è profondo veicolo di pace personale ed universale. Paladino, utilizzando il potente mezzo dell’arte e reinterpretando, in chiave contemporanea, linguaggi artistici del passato, ha realizzato un vero e proprio luogo di conforto in cui ritrovare la propria interiorità grazie alla ricchezza del tempo ed oltre lo scorrere di esso.
complimenti