Tabula Bantina – Foto: Giorgio Manusakis

Il famoso reperto, conservato al MANN, rappresenta una delle principali testimonianze epigrafiche in lingua osca.

La ricca collezione epigrafica del MANN – il Museo Archeologico Nazionale di Napoli – offre ai visitatori numerosi reperti contenenti iscrizioni nelle principali lingue in uso nell’Italia centro-meridionale a partire dal VI secolo a.C. e fino a tutto il II secolo d.C., un centinaio dei quali riguardanti gli idiomi italici. Tra essi spicca per valore un frammento della Tabula Bantina, considerata da tutti gli studiosi il più significativo documento giuridico e in assoluto il più consistente documento in lingua osca, insieme al Cippo Abellano (che riporta un trattato stipulato tra le città di Nola e di Abella), dal 1745 custodito nel Seminario arcivescovile di Nola.

La storia degli Osci a Bantia

Bantia, occupata dagli Osci, antica popolazione di stirpe italica, viene indicata da Strabone (storico e geografo greco, nato ad Amasea, nel Ponto, prima del 60 a. C. e qui forse morto intorno al 20 d.C.) come una delle città interne della Lucania. Le attestazioni più antiche dell’insediamento, che sorge su un’altura affacciata sul torrente Banzullo – affluente di sinistra del Bradano, al confine fra Apulia e Lucania – risalgono tra il VII e il IV secolo a.C. Gli scavi archeologici condotti alla fine degli anni Settanta hanno evidenziato la presenza di un grande centro preromano distribuito su tutta la superficie collinare. Sono qui venute alla luce oltre 200 tombe con cospicua ceramica subgeometrica daunia, a vernice nera con figure rosse (bicromia derivante, probabilmente, dall’area metapontina), bronzi ornamentali, armi, monili aurei e in argento. Inoltre, in altre zone del territorio urbano, sono emerse tracce di una presenza sabellica e segnatamente un luogo di culto con armi votive miniaturistiche in ferro e bronzo, ex-voto tipici dei santuari italici del IV-III secolo a.C. L’allocazione corrispondente all’attuale Banzi si ha, invece, a partire dal I secolo a.C., in età repubblicana. La moderna città è posta a poche centinaia di metri dal luogo dove sono venuti alla luce i nove cippi del Templum auguraculum in terris.  Databile proprio ai primi decenni del I secolo a.C., l’edificio rappresenta, forse, l’unica testimonianza del mondo latino riguardante i riti divinatori. I nove cippi, che riportano sulla sommità i nomi delle divinità, erano posti in modo da indicare sul terreno la traiettoria del sole, con il cippo di Giove che indicava il suo sorgere, lo zenit e il tramonto.

L’epigrafia italica, Mann – Foto: Giorgio Manusakis

Bantia, quindi, prima della Guerra sociale – ovvero fino al 91 a.C. – era una città osca, appartenente probabilmente alla confederazione dei Lucani. Era autonoma, con un suo sistema di leggi e magistrature, come testimonia proprio la parte in lingua italica della Tabula Bantina. Le istituzioni erano simili a quelle romane ma locali: la città era governata da magistrati osci, come il meddíss túvtiks – una sorta di magistrato supremo, simile al console – e il verehúd, corrispondente probabilmente ad un funzionario, un giudice o un’altra carica civica o religiosa.

Dopo la Guerra sociale (dal 90–89 a.C. in poi), con la concessione della cittadinanza agli Italici, con la Lex Iulia e la Lex Plautia Papiria, anche Bantia si strutturò come municipium romanum. L’insediamento era ora governato secondo il modello dei municipia: da due magistrati principali, i duoviri (duoviri iure dicundo), o, come in alcune città (potrebbe essere stato il caso anche di Bantia) da quattro, detti quattuorviri, e da un ordo decurionum (una sorta di consiglio comunale locale), i cui membri erano eletti secondo regolamenti di diritto romano (come evidenziato nella parte latina della Tavola Bantina).

Una lingua scritta in tre alfabeti

L’osco era una lingua indoeuropea, parlata in Italia centrale e meridionale dal VI secolo a.C. al I secolo d.C. e diffusa tra le popolazioni osco-umbro-sabelliche, tra cui gli Hirpinie i Sanniti. Per quanto riguarda l’alfabeto anche quello osco, come tutti gli altri definiti italici, deriva dall’etrusco e la sua conoscenza proviene principalmente dalle epigrafi. Che l’osco fosse una lingua vera e propria ne abbiamo testimonianza in uno scritto di Aulo Gellio (scrittore e giurista del II secolo d.C.) che nelle Noctes Atticae (XVII), parlando di Quinto Ennio (poeta e scrittore vissuto a cavallo fra il III e il II secolo a.C.) e delle sue competenze linguistiche, riferisce: “…Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine”. In sostanza, Ennio aveva tre anime perché sapeva parlare il greco, l’osco ed il latino. Come evidenziato dai ricercatori del progetto MNAMON della Scuola Normale Superiore, la scrittura osca sarebbe un vero e proprio emblema di aggregazione e integrazione culturale in Italia, essendo stata capace di omologare le tradizioni linguistiche delle popolazioni meridionali. La conseguenza fu l’uso di tre alfabeti diversi che utilizzano tre differenti basi grafiche: l’etrusco, il greco e, da ultimo, il latino. Il risultato fu che nell’area in cui prevaleva la cultura etrusca (per lo più la Campania e le zone limitrofe) si sviluppò l’alfabeto osco a base etrusca – come testimoniano la Tegola di Capua (IV secolo a.C.) o la Tavola di Agnone (III secolo a.C.) – mentre in quella in cui prevaleva la cultura greca (in Lucania e nel Bruzio, nella parte meridionale della provincia di Salerno ed in parte della provincia di Messina) venne utilizzato un alfabeto osco a base ellenica, come nel caso della Tabula di Roccagloriosa – di cui abbiamo parlato nel magazine n.30 della nostra rivista. Nei documenti e nelle iscrizioni più tarde subentra l’uso dell’alfabeto latino, come anche nel caso della Tabula Bantina. Per tali ragioni, in generale, la scrittura in osco, che ha un andamento da destra verso sinistra, si avvale di un alfabeto che, a seconda dell’influenza linguistica, oscilla tra un numero minimo di 19 e un massimo di 23 lettere.

Alfabeto osco – Autore foto: Flappiefh – Licenza: CC0, via Wikimedia Commons

Le Tavole Bantine, specchio di una “società variegata”

Occorre premettere che la tavola conservata presso il MANN è solo una porzione (alta 38 centimetri e larga 25) di una più ampia lastra bronzea, di cui una seconda parte, abbastanza cospicua (alta 12 centimetri e larga 15,5), è conservata presso il Museo di Venosa. A questa dovevano aggiungersi altri frammenti minori andati, però, persi. La storia del ritrovamento della Tabula è tuttora controversa. Ciò che è certo è che il primo e più grande frammento fu scoperto nel 1790 nei pressi di Oppido Lucano, in Basilicata, sul monte Montrone, tra i resti di un’antichissima tomba, mentre il secondo è stato rinvenuto solo nel 1967, sempre nella stessa zona dell’antica Bantia, corrispondente all’odierna Banzi. La tavola in bronzo, opistografa (che reca iscrizioni su entrambe le facce), ha incisa sul lato diritto una lex di Roma in latino mentre su quello verso una lexin osco, scritta da sinistra a destra con caratteri latini. Quest’ultima, secondo gli studiosi, sarebbe stata redatta dopo quella in lingua latina.  Ad avallare tale conclusione sarebbe il frammento rinvenuto nel 1967 e riconosciuto come appartenente alla Tabula Bantina da Dinu Adamesteanu. Lo studioso ha posto in evidenza come esso presenti un foro d’affissione, verosimilmente preesistente, di cui l’incisore osco ha dovuto tener conto nello scrivere la parola deivans. Dunque, considerandolo più recente di quello latino, che viene comunemente datato intorno al 100 a. C., il testo osco potrebbe essere stato composto, probabilmente, intorno all’80-70 a. C.

Tabula Bantina, particolare – Foto: Giorgio Manusakis

Le Tavole Bantine rappresentano certamente uno dei reperti epigrafici più significativi dell’Italia antica, offrendo una preziosa testimonianza della lingua osca e delle dinamiche sociali e politiche dell’epoca. Come sottolineato da Sebastiano Tafaro dell’Università di Bari, il documento, in aggiunta ad altri di questo tipo scoperti nel resto dell’Italia – solo per citarne alcuni, ricordiamo le Tavole iguvine, considerate il monumento principale della lingua e della civiltà degli Umbri; un’iscrizione in osco portata a Messina nel 283 a.C. da mercenari Mamertini reduci da Siracusa; la Tabula Veliterna e le numerose brevi attestazioni, talvolta dipinte in rosso sul tufo, trovate a Pompei e a Capua – fa emergere “ l’esistenza  di una società variegata, con sfaccettature multiple e differenziate, nella quale ebbero accenti particolari le esperienze dei Lucani. È nella cornice cultura delineata da queste scoperte che va inserita anche la Tabula Bantina. La quale ha un indubbio e considerevole risalto e rivela accentuata originalità”.

Il lato osco scritto in alfabeto latino, ma con ortografia adattata alla fonetica italica, riporta le lettere incise in modo molto regolare, similmente alla capitalis monumentalis romana (una scrittura con forme geometriche che richiamano il quadrato, il triangolo e il cerchio). Alcune lettere latine, poi, sono usate per rendere suoni specifici, come ad esempio la Q – per rendere un suono labiovelare – e la K –usata in modo alternato alla C.  Non è presente la punteggiatura tra le parole, ma ci sono spazi irregolari funzionali a separare frasi o concetti. Il testo è inciso a colonne ed è organizzato in blocchi normativi, dove le formule in molti casi sono introdotte da parole come emekk (“qui”) e preiuatud (“è stato deciso”).

Tabula Bantina, particolare – Foto: Giorgio Manusakis

I contenuti politico-istituzionali della Tabula

Circa il contenuto della tavola le posizioni degli studiosi non sono concordi, anche in considerazione dei problemi connessi alla qualificazione del testo giuridico in latino, in quanto non appare chiaro se le norme siano attribuibili alla sfera del diritto agrario o si tratti di un provvedimento giudiziario. Paradossalmente le iscrizioni in osco, invece, sembrano più intellegibili secondo gli studiosi del progetto MNAMON e farebbero riferimento al nuovo assetto della città, una volta divenuta ‘satellite’ di Roma. Sarebbe rilevante in tal senso l’utilizzo di parole riguardanti le magistrature, i meddis, prese in prestito dal latino. Pur essendoci ancora prudenza sull’esatto contenuto, alcuni studiosi ritengono si tratti, comunque, di un insieme di norme che regolano il municipio banzese. Nella sua traduzione Aldo Prosdocimi, figura fondamentale degli studi linguistici in Italia, evidenzia come lo statuto possa essere diviso in determinati temi salienti: la limitazione del diritto di intercessione; le disposizioni sui comizi giudiziari (procedura penale); le disposizioni sul censo; la procedura civile e il cursus honorum, ovvero le regole della carriera dei magistrati. 

Dal canto suo Tafaro afferma come la tavola faccia un chiaro riferimento ai capi della comunità, chiamati meddix, i quali erano abilitati a convocare il comizio, ma anche all’obbligo (ivi espresso), per essi, di giurare che avrebbero agito nell’interesse del popolo, mettendo così in evidenza una partecipazione collettiva nell’esercizio del potere. In buona sostanza, il documento dimostra come la lingua osca fosse ancora in uso nel I secolo a.C. nel diritto locale, ma anche che in quel tempo ci si trovava in una fase di transizione verso l’obbligo di usare il latino nelle leggi pubbliche e di integrazione giuridica delle comunità italiche nello stato romano. Nonostante il mistero avvolga ancora il significato compiuto della Tabula, essa rappresenta una testimonianza eloquente di un’epoca lontana; un ‘ponte’ verso un mondo che non c’è più, da tutelare per le generazioni che verranno.

Specifiche foto dal web Titolo: Oscan alphabet
Autore: Flappiefh
Licenza: CC0, via Wikimedia Commons
Link: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Oscan_alphabet.svg
Foto modificata

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