Francesco Filippelli, ‘Nolite Timere’, i due volti del dipinto – Foto: Matilde Di Muro

Domenica 26 novembre, giornata assolata e sorprendentemente fredda dopo un autunno che sapeva di primavera, presso uno dei tanti luoghi protagonisti della storia napoletana, si è svolto un evento artistico come molti che, per fortuna, la nostra città, in una sorta di rinascimento dell’arte, ci sta regalando. Eppure vi assicuro che questo va davvero raccontato perché è straordinario il luogo che l’ha ospitato, una vera perla tardogotica, ma soprattutto ciò che in esso sarà possibile visitare.

Per quanto riguarda la location siamo nel cuore del centro storico di Napoli: parliamo della monumentale Cappella di San Giovanni dei Pappacoda. Fu costruita nel 1415 dalla famiglia Pappacoda dedicandola a S. Giovanni Evangelista e si erge in largo S. Giovanni Maggiore, di fronte al rinascimentale palazzo Giusso, sede dell’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, e adiacente alla monumentale basilica di San Giovanni Maggiore.

Basilica di San Giovanni Maggiore, l’ingresso – Foto: Matilde Di Muro

Si tratta di un semplice corpo di fabbrica a pianta rettangolare realizzato in tufo giallo e affiancato, sul lato sinistro, da una torre campanaria a base quadrangolare in stile gotico-durazzesco che, nella parte superiore, alterna il tufo giallo al piperno grigio scuro con motivo a scacchiera e presenta numerosi frammenti scultorei marmorei di epoca romana reimpiegati nell’opera. Ma ciò che attrae maggiormente l’attenzione è l’ingresso: un monumentale portale ogivale in marmo bianco, ricco di bassorilievi di tematica religiosa, attorno allo stemma degli Angiò-Durazzo, in omaggio a coloro che favorirono l’ascesa socio-politica della famiglia Pappacoda.

Basilica di San Giovanni Maggiore, la torre campanaria – Foto: Matilde Di Muro

L’interno fu interessato da lavori di rifacimento nella seconda metà del ‘700, ragion per cui venne privato degli affreschi quattrocenteschi che furono sostituiti da stucchi e pitture barocche.

Purtroppo questo luogo, nel corso dei secoli, è stato più volte vittima di interventi invasivi alternati a lunghi periodi di abbandono, per cui, entrando, vediamo che ha conservato ben poco delle sue caratteristiche originali. Si scorgono piccoli frammenti di affreschi quattrocenteschi che emergono tra gli intonaci settecenteschi, tombe cinquecentesche dei cardinali Angelo e Sigismondo Pappacoda, un tondo in stile barocco al centro del soffitto; ai lati quattro nicchie che ospitano le statue dei quattro evangelisti realizzate da Angelo Vivo, allievo del Sanmartino, e un altare marmoreo di stile barocco su cui era stata apposta una tela del Solimena raffigurante San Giovanni Evangelista, purtroppo trafugata.

Angelo Vivo, statua di San Giovanni Evangelista – Foto: Matilde Di Muro

Questo luogo, dopo quasi due decenni di degrado, è stato recentemente aperto al pubblico grazie all’impegno di associazioni del territorio guidate dalla passione di don Salvatore Giuliano, parroco dell’attigua basilica di San Giovanni Maggiore.

Don Salvatore ha fatto, di questo gioiello dimenticato, uno spazio espositivo d’eccezione per opere d’arte contemporanea con l’intento di voler vincere la battaglia contro il degrado dell’arte, attraverso l’arte stessa e con le armi della bellezza e della cultura. È con questo intento che è nato l’evento dal titolo “Nolite Timere” la cui genesi ha il sapore antico di quando le opere d’arte nascevano dalla felice sinergia tra un committente e un artista. In questo caso il committente è proprio don Salvatore, che desiderava riempire quel vuoto sull’altare della cappella lasciato dal furto della tela del Solimena, e che incontra un giovane e talentuoso artista napoletano a cui affidare il suo desiderio: Francesco Filippelli.

Nasce così un’opera pittorica piuttosto straordinaria che ci racconta di san Giovanni Evangelista a cui la cappella è stata, sin dalle origini, dedicata. Quella del tema è stata l’unica richiesta avanzata dal committente e poi l’artista ha dato voce a questo personaggio, anzi dandogli letteralmente ‘vita’. Quest’ultima affermazione si può comprendere solo se si conosce la formazione e le peculiarità dell’artista, il quale definisce se stesso come un chimico con l’ossessione per la pittura. Si tratta di un trentenne napoletano che inizia a dipingere all’età di 14 anni studiando a bottega dalla pittrice Francesca Strino, avendo modo, così, di dare piena espressione alla sua natura, che lo spinge a dialogare attraverso le immagini più che con le parole. A 18 anni sente forte la necessità di stabilire un contatto profondo di conoscenza anche col mondo ‘materiale’, tanto da intraprendere e portare a compimento gli studi in chimica presso l’Università Federico II di Napoli, che gli hanno dato modo di affiancare, alla sua amata professione di pittore, quella di docente di matematica e fisica. Le sue opere sono state esposte in diversi luoghi di rilievo, hanno ottenuto preziosi riconoscimenti ed i suoi lavori figurano in molteplici riviste d’arte contemporanea.

L’artista Francesco Filippelli con Matilde Di Muro e, alle spalle, il dipinto ‘Nolite Timere’

L’unicità di questo artista sta sicuramente nell’utilizzo, oserei dire metafisico, dei colori ma, soprattutto, nell’aver messo a punto, negli ultimi anni, una particolare tecnica che innesta un processo rivoluzionario nell’ambito dell’odierna produzione artistica: i ‘ritratti in trasformazione’.

Essa è già stata presentata al pubblico con una mostra personale, tenutasi agli inizi del 2023, dal titolo “Frammenti di Temporama Alchemico”, che ha visto l’esposizione di 6 ritratti di personaggi in trasformazione grazie ad un processo chimico che si potrebbe definire alchemico. In questo caso per alchimia si intende un’esperienza trasformativa spirituale oltre che materiale, vissuta innanzitutto dall’artista nella genesi dell’opera e poi offerta a noi attraverso dipinti su tela che mutano sotto gli occhi dell’osservatore: una trasformazione puramente pittorica, senza l’ausilio di strumenti digitali. Filippelli aggiunge, all’esperienza dell’immagine, dello spazio e della luce, tipici dell’arte pittorica, quella del ‘tempo’, che non è quello discrezionale dell’osservatore ma quello entro il quale l’opera cambia, si trasforma sotto i nostri occhi e, così facendo, rende possibile l’accesso ad una realtà interiore, reale tanto quanto quella fisica.

La chimica si fa oggetto di riflessione artistica riguardo ai confini spazio-temporali e porta la pittura verso una dimensione mai raggiunta finora. 

Grazie a questa incessante mutazione, le opere evocano una potente carica di mistero e di magia, ed è quello che trasmette anche l’opera istallata come pala d’altare nella Cappella Pappacoda.

San Giovanni Evangelista è l’apostolo più giovane al momento della morte di Gesù e anche quello che, sopravvissuto al martirio, visse abbastanza a lungo da scrivere uno dei quattro vangeli e il libro dell’Apocalisse che, attraverso un intricato labirinto di simbolismi numerici e allegorie, ci lascia uno straordinario messaggio di verità e speranza sulla presenza di Dio nella vita dell’uomo di ieri, di oggi e di domani. L’artista ce lo rappresenta inizialmente giovane, così come doveva essere al momento della morte di Gesù, con uno sguardo fortemente espressivo. Tra le mani regge un calice a memoria dell’episodio secondo cui, ad Efeso, venne offerto al Santo del vino avvelenato e pare che, prima di berlo, Giovanni lo benedisse col segno della croce che ne fece uscire il veleno sotto forma di un serpente verde.

Per effetto della trasformazione l’apostolo si fa anziano e, sul suo volto, lentamente vedremo comparire le rughe e i segni del tempo, con i quali appare più marcata anche la sofferenza del suo volto e del suo sguardo e, dal calice, vedremo venir fuori proprio quel serpente con le sembianze di un dragone. All’interno della coppa la trasparenza del liquido contenuto lascia intravedere due figure: da un lato l’umanità inconsapevole che non riesce a vedere la verità, non la accetta e, per questo, la fotografa rendendola fissa e immutabile, falsa ma confortante; sull’altro lato del calice è invece riflessa l’umanità consapevole che, però, appare terrorizzata dalla verità perché sprovvista della sua componente spirituale, senza cioè il supporto e il conforto di Dio dentro di sé.

Ma l’artista non si limita a fare semplicemente un’analisi dell’umanità attraverso un forte simbolismo, egli ci indica anche una possibile via d’uscita, quella che lui ritiene essere una possibile via d’uscita. La risposta, a questo stato di cose, è tutta in una scritta sul drappo di cui è vestito il Santo. Infatti, in basso a destra, si legge una frase che Gesù pronuncia e che riporta il Vangelo di Luca (Lc. 12, 32): “Nolite Timere”. “Non abbiate paura” è un’esortazione che, all’interno della Bibbia, compare ben 365 volte.

L’evento può essere visto come un inno al coraggio: il coraggio di un grande testimone della fede quale fu l’Evangelista Giovanni a cui è dedicata l’opera pittorica e la cappella che la contiene; il coraggio del parroco don Salvatore Giuliano di lavorare per restituire alla comunità un luogo altrimenti abbandonato al degrado e di dare ‘voce’ ad un giovane artista come Filippelli, il quale ha la forza e il coraggio necessari per sperimentare un’arte che scaturisce da un pensiero autentico, critico e personale, libero da condizionamenti e pregno di cultura. Due figure chiave per un luogo che attendeva il suo giusto riscatto e che, attraverso la bellezza, si fa portavoce di un messaggio tanto importante e di incoraggiamento in un’epoca in cui il genere umano sembra aver perso il controllo di se stesso, cedendo il passo all’intelligenza artificiale e mostrandosi bisognoso di ‘rieducarsi’ agli umani sentimenti. L’invito è di fare quest’esperienza: prendiamoci un attimo di tempo sottratto ad una vita frenetica e affollata, entriamo in un segmento di storia di questa nostra splendida città e immergiamo occhi, mente e anima in una tela che può farci entrare in una dimensione ‘altra’ che già ci appartiene ma che attende solo di essere svelata.

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