Walking in the Sea – Foto: Menandros Manousakis

Il Trattato per la protezione dell’Alto Mare offre nuove prospettive per la tutela degli oceani e degli ecosistemi marini.

Dalle “acque internazionali” alla Convenzione di Montego Bay

Fino agli anni ’80 il mare era considerato un elemento secondario, non governato da una vera e propria regolamentazione. In particolare, fino al 1982 i diritti esercitabili dagli Stati su sue porzioni si estendevano generalmente entro le tre miglia nautiche dalla costa mentre tutto lo spazio eccendente rientrava nella generica macrocategoria delle “acque internazionali”, equiparabili ad una res nullius, ovvero una zona di proprietà di nessun Paese e su cui nessuno poteva avanzare delle specifiche pretese.

Nel 1982, con la Convenzione di Montego Bay, si andarono a ridefinire gli spazi marini, stabilendo le zone su cui gli Stati costieri potevano esercitare determinati diritti: acque interne, mare territoriale, zona contigua, zona economica esclusiva, piattaforma continentale e, infine, alto mare. La ridefinizione di tali contesti non risolse solo un mero problema pratico, cioè quello di andare a stabilire a quale Stato appartenesse una certa porzione di mare, ma, nel corso degli anni, ha aperto lo spazio a una serie di riflessioni in merito alla tutela degli ecosistemi marini e allo sfruttamento delle risorse in essi presenti. Già nella Convenzione di Montego Bay si prevede l’obbligo generale di proteggere l’ambiente marino e di assicurare che le attività condotte sotto la giurisdizione di un Paese che aderisce alla Convenzione siano compatibili con la protezione del mare anche al di là delle acque territoriali. Tuttavia, tale accordo, essendo stato elaborato 42 anni fa, non tiene conto delle minacce attuali che i nostri mari devono fronteggiare.

Il cambiamento climatico mette a dura prova la biodiversità degli oceani e le conseguenze devastanti sono sotto gli occhi di tutti: erosione delle coste, sbiancamento delle barriere coralline e innalzamento delle temperature sono solo alcuni dei problemi più evidenti. A questi fenomeni si aggiungono l’inquinamento antropico, l’eccessivo sfruttamento delle risorse ittiche, la pesca illegale e l’introduzione di specie esotiche invasive che rappresentano una costante minaccia per l’equilibrio degli oceani. Nonostante queste problematiche siano ampiamente fuori controllo, nessun governo si assume la responsabilità di proteggere e gestire in maniera sostenibile le risorse in alto mare, vale a dire la zona che si estende oltre le 200 miglia nautiche dalla costa e che occupa circa i due terzi dell’oceano. Il risultato è che queste aree diventano particolarmente vulnerabili, gli habitat naturali sono a rischio e, secondo le stime, una percentuale compresa tra il 10% e il 15% delle specie marine è già a rischio estinzione.

Plastica in mare – Foto: Lucia Montanaro

Il Trattato del 2023 e i suoi punti chiave

Nel tentativo di invertire questa tendenza, lo scorso anno i leader mondiali, in occasione della quinta sessione della Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di là della giurisdizione nazionale (BBNJ), si sono riuniti nella sede delle Nazioni Unite per siglare il Trattato per la protezione dell’Alto Mare (UN High Seas Treaty). L’accordo, firmato da 82 Stati, approvato e autorizzato per la ratifica dal Parlamento Europeo il 24 aprile 2024, mira a: “Garantire la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale, per il presente e a lungo termine, attraverso l’effettiva attuazione delle disposizioni pertinenti della Convenzione e l’ulteriore cooperazione e coordinamento internazionale”. In altre parole, i 75 articoli sono volti a creare un quadro normativo che possa efficacemente tutelare gli ecosistemi marini. L’ONU, sul sito dedicato, riassume in cinque punti chiave gli argomenti del Trattato:

  1. protezione che si estenda oltre i confini nazionali con l’obiettivo di proteggere e tutelare l’ambiente marino e mantenere l’integrità dei sistemi oceanici soprattutto per le generazioni future;
  2. pulire gli oceani in particolar modo dalle enormi masse di plastica;
  3. gestire gli stock ittici in maniera sostenibile onde evitare il sovrasfruttamento delle risorse;
  4. abbassare le temperature degli oceani e affrontare il problema dell’acidificazione delle acque;
  5. raggiungere gli obiettivi posti dall’Agenda 2030.

Il dato più interessante tra tutti è che il Trattato pone l’accento sulle condizioni peculiari in cui versano i piccoli Stati insulari e i Paesi in via di sviluppo senza sbocco sul mare, che attualmente sono i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico. In particolar modo alle popolazioni indigene vengono riconosciuti i diritti e le conoscenze tradizionali. Tutto ciò, più che un’innovazione dovuta ad uno spirito di collaborazione, è la conseguenza di anni ed anni di pressioni fatte da queste comunità a livello internazionale; pressione più che condivisibile e motivata in quanto specialmente gli Stati insulari si trovano a dover fronteggiare senza i mezzi necessari una situazione senza precedenti e, soprattutto, di cui loro sono i meno responsabili. La risposta che arriva è tanto utile quanto estremamente tardiva; solo nel 2022, 32,6 milioni di persone hanno dovuto abbandonare il proprio Paese per cause connesse al cambiamento climatico creando una vera e propria emergenza umanitaria che però era facilmente prevedibile. Se da una parte è giusto tutelare l’economia dei Paesi in via di sviluppo, dall’altra bisogna bilanciare equamente gli interessi delle due parti. Se per tutelare l’economia di un Paese si arriva, come è già successo, a giustificare la sovrapproduzione industriale, non rispettando i parametri previsti prima dal Protocollo di Kyoto e poi dall’Accordo di Parigi, allora sarebbe necessario ripensare la modalità con cui si debbano applicare questi mezzi di tutela.

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