A Cannes ‘Asteroid City’ è stato accolto in modo contrastante, tendenza confermata dalla critica nelle settimane successive. Wes Anderson ancora una volta è divisivo, ma stavolta fa un passo in avanti.

Asteroid City esiste ma non esiste allo stesso tempo. All’inizio del film Bryan Cranston, in veste di presentatore dell’opera, ci dice che Asteroid City in realtà è finzione eppure, per l’intera proiezione, la città è davanti a noi, è tangibile, ci sembra quasi di averla già vista in uno spot pubblicitario o su qualche guida turistica. Per tutta la durata del film (105 minuti in totale) ci troviamo davanti a due piani narrativi diversi che spesso però si confondono: da una parte abbiamo la storia dell’opera, cioè appunto Asteroid City, dall’altra abbiamo il processo creativo che ha portato alla sua esistenza.

La trama del film è una ‘non-storia’ divisa in tre atti, in cui la narrazione è completamente sacrificata in favore di uno sforzo virtuoso del regista.

Il primo piano narrativo è quello dell’opera teatrale concepita dallo scrittore Conrad Earp (Edward Norton), ovvero Asteroid City. In questa città immaginaria, caratterizzata da un enorme cratere dovuto alla caduta di un meteorite milioni di anni fa, ogni anno si tiene un concorso in cui le migliori menti in età scolare presentano le proprie invenzioni. Entra così in scena Woodrow (Jack Ryan) che assieme alle tre sorelle arriva in macchina con il padre Augie Steenbeck (Jason Schwartzman), un fotografo di guerra. Augie porta con sé un segreto che poco dopo svela ai figli, ma con netto ritardo: la morte della madre, interpretata da Margot Robbie che vediamo più tardi sullo schermo per qualche minuto. Al quintetto poi si aggiungono il manager del motel (Steve Carell), la diva del cinema Midge Campbell (Scarlett Johansson) che accompagna sua figlia al concorso, il generale Gibson (Jeffrey Wright), la dr.ssa Hickenlooper (Tilda Swinton) e tanti altri concorrenti. In quel piccolo spazio di deserto i partecipanti alla competizione assistono ad un evento che modificherà il loro viaggio in maniera radicale: l’incontro con un alieno.

Mentre il primo piano narrativo è caratterizzato dai classici colori pastello tipici del cinema di Wes Anderson, il secondo è in bianco e nero. Già nel suo film precedente, The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun, Anderson aveva sperimentato differenti tecniche e colori per distinguere i diversi piani narrativi. Come anticipato prima, mentre il primo è quello in cui si svolge l’opera teatrale, il secondo racconta come l’opera sia stata concepita e portata in scena. Le due menti principali dietro di essa sono lo scrittore Conrad Earp (Edward Norton), anima tormentata, e Schubert Green (Adrien Brody), che ormai ha fatto così tanto del teatro la sua vita, che vive letteralmente dietro le quinte.

Ancora una volta Wes Anderson propone un film divisivo, che ad alcuni spettatori arriva poco o per niente, lontano dagli schemi hollywoodiani ma pieno di riferimenti estremamente apprezzabili al mondo della fantascienza e del fumetto e alla cultura pop ed hipster. Come in tutti i suoi film, l’elemento distintivo e preponderante è rappresentato dall’utilizzo sapiente dello spazio e del colore che si adatta ad ogni atmosfera. Il ritorno dei suoi spazi larghi si adatta sia all’ambientazione del deserto che al dinamismo tipico di quello che è uno spettacolo teatrale. L’ambientazione, anche se mai esplicitato ma desumibile dallo storytelling e dai dialoghi dei personaggi, è quella degli Stati Uniti durante la guerra fredda. I dialoghi sono minimali, i personaggi tra di loro comunicano esattamente l’essenziale, mai troppo, mai troppo poco. I temi, anche i più delicati, sono toccati con gentilezza e ironia. Ricorrenti sono le tematiche dell’avventura e la perdita, che ritroviamo anche in altri suoi film come Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Il treno per Darjeeling, la disillusione, come ne I Tenenbaum e le storie teen, che caratterizzano anche Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, Rushmore e forse il suo capolavoro, Grand Budapest Hotel. L’unica vera pecca di questo film è un utilizzo non troppo sapiente del cast stellare che Wes Anderson è riuscito ad accaparrarsi, perché attori brillanti come Willem Dafoe, Margot Robbie e lo stesso Adrien Brody hanno ruoli minori nel film o addirittura compaiono per pochissimi minuti.

Ad ogni modo Asteroid City è un ottimo prodotto, un vero e proprio esercizio di stile di un regista che, ad ogni suo film, alza sempre di più l’asticella verso mondi inesplorati del cinema. Che lo si ami o che lo si detesti Wes Anderson è unico nel suo genere ed è uno dei pochi registi di oggi ad aver creato un vero e proprio stile che difatti porta il suo nome.

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