‘Kafka a Teheran’, un film diretto da Ali Asgari e Alireza Khatami, arrivato nei cinema dopo essere stato presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes.
Uscire di casa per fare una passeggiata con il nostro animale domestico, svolgere delle commissioni o scegliere cosa indossare la mattina sono tutte azioni che ognuno di noi svolge in un esiguo lasso di tempo, senza pensare troppo a tutte le eventuali conseguenze. Ogni mattina, a Teheran, in Iran, qualcuno o qualcuna, prima di svolgere qualsiasi di queste semplici cose, ci pensa più di una volta perché ogni azione, anche la più banale, deve essere misurata e soppesata. Il film racconta proprio questo: l’oggettiva impossibilità di compiere azioni, anche le più banali, all’interno di un regime totalitario dove ogni cosa è posta sotto lo stretto controllo dell’autorità. I protagonisti sono madri, bambine, disoccupati e cittadini comuni, ognuno con una storia diversa che ha, però, il medesimo filo conduttore: l’assoluta mancanza di libertà nel poter determinare la propria vita all’interno di un regime teocratico.
Il lungometraggio è composto in totale da nove sequenze che raccontano la quotidianità di nove protagonisti che si confrontano con l’autorità (chi con la polizia, chi con il datore di lavoro e chi con una dirigente scolastica), che interpreta e applica leggi estremamente restrittive nel modo più astruso possibile. Il film è stato girato utilizzando il primo piano, ponendo al centro dell’inquadratura il protagonista della storia che è ogni volta sottoposto ad una sorta di interrogatorio grottesco. L’insensatezza dell’autorità del regime è testimoniata proprio dalla sua assenza sulla scena. Fuori campo si sente la voce dei funzionari che interrogano, sollecitano e cercano risposte ancor prima che i protagonisti possano rispondere alla domanda precedente. Hannah Arendt, nel suo più celebre lavoro, parlò di “banalità del male”. Qui, più che di banalità, si può parlare di ottusità del male. Ci troviamo davanti una serie di burocrati, funzionari e passacarte che mettono in pratica ogni giorno la pseudo legge di un regime orwelliano senza preoccuparsi dell’essere umano che hanno di fronte. Leggi di cui poi loro stessi sono vittime e carnefici allo stesso tempo perché, ognuno di loro è tenuto a metterle in pratica per evitare di subire le conseguenze del mancato espletamento delle proprie funzioni. In questo contesto, un banale rinnovo della patente diventa impossibile a causa dei tatuaggi che offendono la morale e si è costretti a spogliarsi davanti ad un funzionario per provare la propria sanità mentale o, ancora, un padre è costretto a cambiare nome a suo figlio perché quello scelto risulta troppo occidentale. La satira che circonda queste situazioni, appunto kafkiane, diventa un paradosso grottesco, una sorta di gabbia non tangibile in cui sono tutti imprigionati. La soluzione allora non può che essere drammatica. Il film si conclude con una sorta di apocalisse, forse auspicata o forse necessaria, in cui Teheran viene rasa al suolo da un allegorico terremoto e, insieme a tutti i palazzi, crollano metaforicamente anche tutte le sovrastrutture che imprigionano la popolazione.
L’urgenza di raccontare cosa avviene in Iran è lampante. Non a caso la pellicola è stata girata clandestinamente in soli sette giorni, con un budget esiguo e con mezzi e risorse estremamente limitati. Il film è un vero e proprio atto di insubordinazione dei due registi che, consci del rischio, giocano tutte le loro carte per mostrare al mondo il significato di vivere in un regime autoritario dove poco tempo fa Mahsa Amini, poco più che ventenne, è stata uccisa dalla polizia religiosa per aver violato la legge sul velo.
Supportare i registi iraniani come Jafar Panahi, noto regista e ormai bersaglio del regime da anni, è diventato un atto necessario per noi spettatori, soprattutto occidentali. Ascoltare le loro voci e le loro storie è ormai una sorta di obbligo perché, davanti alle ingiustizie, come mostrano Ali Asgari e Alireza Khatami, non si può rimanere silenti.