Campo di concentramento di Auschwitz – Foto: Matilde Di Muro
Il ‘Giorno della memoria’ tra orrori e opere d’arte che li ricordano. Per non dimenticare…
Il 27 gennaio, come ogni anno da quando, nel 2005, l’ONU ha istituito la Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto, facciamo ‘memoria’.
Perché memoria? Perché ci si è resi conto che era importante non cadere vittime della limitazione del ‘ricordo’. Sì, perché tra ricordo e memoria vi è una differenza sostanziale: la parola ‘ricòrdo’, che deriva dal latino re-cordor e significa ‘richiamare al cuore’, fa riferimento a ciò che appartiene alla sfera intima, personale e individuale, mentre la parola ‘memòria’, dal greco mimnésco, indica un’attività della mente e richiama ai contenuti del passato che decidiamo di mantenere in vita e di voler consegnare alla storia. Insomma, si è scelto di uscire dal dato individuale per passare a quello universale su un fatto che ha tristemente segnato la storia di tutta l’umanità e che non si può certo correre il rischio di dimenticare: l’Olocausto. Questa parola, che oggi evoca orrori, nell’antica Grecia stava ad indicare cerimonie rituali in cui venivano sacrificati animali per onorare gli dei; ma, durante il Secondo conflitto mondiale, ha riguardato lo sterminio di oltre 15 milioni di vittime, tra cui 6 milioni di ebrei oltre a polacchi, slavi, abitanti delle regioni dell’Europa orientale e dei Balcani, neri europei, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, massoni, religiosi cristiani, minoranze etniche come rom, sinti e jenisch, gruppi religiosi come Testimoni di Geova e pentecostali, omosessuali e persone con disabilità mentali o fisiche. Furono istituiti molti campi di concentramento, come quello tristemente famoso di Auschwitz, nei quali, al momento della liberazione, risultavano esserci oltre 700.000 prigionieri. Purtroppo almeno il 10-20% di loro morirono nelle settimane successive alla liberazione perché troppo deboli e malati, altri addirittura si suicidarono. Le stime finali dei superstiti dei campi di concentramento parlano di circa 400.000 persone, tra cui 150/170.000 ebrei. Il 27 gennaio è stato scelto per commemorare il ‘Giorno della memoria’ proprio perché in quella data furono abbattuti i cancelli di Auschwitz.
Campo di concentramento di Auschwitz – Foto: Matilde Di Muro
Dal momento della liberazione sono stati rinvenuti filmati, foto e documenti vari che raccontano della creazione di un’enorme macchina di morte oltre a strumenti di tortura e annientamento. Ma, soprattutto, il terribile ricordo di quanto accaduto era nelle fragili e, allo stesso tempo, straordinariamente forti memorie dei sopravvissuti. Alcuni hanno coraggiosamente scelto di dedicare tutto il resto della loro vita per dare la triste testimonianza di quanto accaduto; ma il tempo è inesorabile e, piano piano, anno dopo anno, gli scampati all’Olocausto sono diventati sempre meno. Si è profilata così la necessità di passare dal ‘ricordo’ alla ‘memoria’ per commemorare le vittime ma soprattutto per fare in modo che si raccontasse dell’Olocausto in maniera permanente ed indelebile.
Nel testo della legge n. 211 del 20 Luglio 2000 che istituisce il ‘Giorno della memoria’, l’Art. 2 recita così: “In occasione del ‘Giorno della Memoria’, di cui all’art.1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”. “…affinché simili eventi non possano mai più accadere” ovvero, come diceva il politico e filosofo britannico Edmund Burke, già nella seconda metà del ‘700: “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”. Questa frase che, incisa in trenta lingue diverse, campeggia su un monumento collocato nel campo di concentramento di Dachau, è un monito che non può lasciare indifferenti ma che, allo stesso tempo, viste le odierne vicende a cui, a livello mondiale, assistiamo, deve farci riflettere!
Campo di concentramento di Auschwitz – Foto: Matilde Di Muro
Sull’Olocausto è stato scritto tanto, primi fra tutti l’hanno fatto i superstiti con i loro racconti; e poi storici, scrittori di ogni nazionalità, registi con documentari e film che hanno commosso tutti. E l’arte pittorica?
C’è stata l’arte prodotta dalle vittime all’interno dei campi o mentre si viveva di clandestinità: è l’arte fatta da artisti e bambini che, senza alcuna formazione accademica, hanno realizzato opere che raccontano la loro esperienza nel campo di concentramento e nelle tragedie quotidiane.
C’è stata l’arte prodotta dai testimoni dell’Olocausto: artisti che hanno cercato di rappresentare gli orrori della guerra affinché le loro opere potessero diventare strumento educativo di lotta e denuncia.
C’è stata l’arte dei sopravvissuti, come Samuel Bak, pittore e scrittore polacco di origine ebraiche sopravvissuto dell’Olocausto. Attraverso i suoi quadri ricorda le ferite impresse a lui ad al suo popolo, come nell’opera Creation of Wartime III (1999-2008) in cui descrive la relazione tra Dio e l’uomo evocando la famosa Creazione di Adamo di Michelangelo. L’uomo ha le sembianze di un miserabile deportato che tende la mano verso un muro squarciato attraverso cui cerca la libertà e il contatto con quel Dio che sembra essersi dimenticato della sua creatura.
A mio avviso un dipinto può essere più efficace di mille parole, e se penso a questa immane strage, così come alle tante altre che purtroppo continuano ad esserci e di cui, molto spesso, nemmeno sentiamo parlare, cerco opere che parlino di orrore e dolore.
Per quanto riguarda il concetto di ‘orrore’ mi viene in mente un’opera che viene da tempi ben più lontani e che ritengo essere un vero e proprio ‘incubo su tela’. Si tratta di un affresco, di autore ignoto, risalente alla prima metà del 1400, oggi conservato presso la Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, dal titolo Il trionfo della morte. Il titolo non lascia scampo: sì, perché è di questo che si è trattato e si tratterà sempre, ogni volta che l’uomo si adopera in tutti i modi impossibili e inimmaginabili per eliminare l’uomo stesso.
Il trionfo della Morte – Foto: Fabrizio Garrisi – Licenza: Wikimedia Commons
L’affresco in questione ci presenta una scena agghiacciante che si svolge in un lussureggiante giardino circondato da una siepe e popolato da diversi e vari gruppi di persone. Irrompe la Morte, sotto le sembianze di scheletro umano, in groppa ad un cavallo scarno e intenta a scagliare frecce mortali contro uomini e donne dei più diversi stati sociali, di differenti religioni e che invocano misericordia. Il cavallo, nonostante il suo corpo emaciato, con costole evidenti, e la macabra anatomia della testa scarnificata che mostra denti e lingua, invade il centro della scena con prorompente vitalità e schiaccia con violenza tutto ciò che incontra. La Morte ha con sé tutti gli attributi iconografici che le sono tipici: oltre ad imbracciare l’arco, porta una faretra ed ha legata sul fianco la falce. Tutt’attorno è il caos come a voler sottolineare la crudeltà e l’insensatezza della guerra, portatrice di morte: giovani gaudenti che danzano e cantano, aristocratici dalle espressioni attonite, cadaveri e miserabili, malati e mutilati che invocano una fine liberatoria. È un’opera del basso Medioevo che riprende, a grandi linee, lo schema diffusosi nel ‘300 sui temi macabri di impronta transalpina. La grafica appare fortemente stilizzata e al contempo naturalisticamente plastica grazie all’uso fortemente materico del colore. Il riferimento alla morte, che repentinamente sorprende tutti indistintamente, si riferisce chiaramente ad una tremenda esperienza collettiva quale fu l’epidemia di peste nera che, all’epoca, aveva decimato la popolazione europea con crudele e inaudita aggressività, ma descrive anche le conseguenze tragiche di ogni guerra. La violenza che durante l’Olocausto si è scatenata oltre ogni possibile comprensione, la ritengo paragonabile ad un morbo che in maniera virulenta si è diffuso a macchia d’olio arrecando forme di distruzione davvero inaudite.
E di fronte a tanto orrore non si può voltare la faccia ma, piuttosto, cercare di comprenderne il dolore. Ed è quello che hanno cercato di fare molti artisti contemporanei di tutto il mondo attraverso opere che sono, allo stesso tempo, memoria, evocazione storica ed esperienza meditativa.
Tra i pochi superstiti e grandi testimoni dell’Olocausto cito, uno per tutti, Primo Levi a cui siamo grati per essersi assunto il compito, in maniera paziente e meticolosa, di registrare, trascrivere, riportare, in forma di parole, elenchi di eventi, gesti, attimi e esseri umani morti e vivi, i ‘sommersi e i salvati’. E così scrisse:
“Gli altri prigionieri di Auschwitz popolano la mia memoria della loro presenza senza volto e se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia del pensiero”
Alla drammaticità di queste parole e, allo stesso tempo, con l’intento di fare ‘memoria e ricordo’, scelgo di legare alcune opere d’arte di un pittore contemporaneo di origini friulane: Claudio Mario Feruglio.
Feruglio, attraverso le sue innumerevoli opere, prodotte lungo cinquant’anni d’attività, rivela una particolare capacità introspettiva ed evocativa dell’esistenza umana con tutti i suoi interrogativi, i drammi e le speranze. Ritengo che i suoi dipinti siano carichi di silenzio e urlanti di sentimento, perché scaturiti innanzitutto da un ascolto che va oltre la realtà fenomenica per poi divenire comunicazione attraverso quello che è, senza dubbio, il suo modo di stare al mondo: la pittura.
Claudio Mario Feruglio – ‘Sguardi oltre’ – Foto fornita dall’artista
Le opere in questione sono così intitolate: Sguardi oltre, Afflizione, Un velo tenue e Vorrei che non diventasse mai notte.
Claudio Mario Feruglio – ‘Afflizione’ – Foto fornita dall’artista
Non credo che queste opere abbiano bisogno di commento ma, piuttosto, chiedono di trovare dentro ognuno di noi un’intima risonanza per questa ‘memoria’ affinché possiamo desiderare tutti, e per tutta l’umanità, un giorno senza notte.
Claudio Mario Feruglio – ‘Un velo tenue’ – Foto fornita dall’artista
Esistono oltre 160 ‘Giornate Mondiali’ ufficialmente riconosciute dalle Nazioni Unite e sono tutte importanti perché nascono dalla necessità di diffondere un messaggio, per cui bisogna essere estremamente vigili per non rischiare di ripetere questa commemorazione come un rito tra i tanti. Impieghiamo la memoria per molte cose così come facciamo tante cose in maniera mnemonica e quindi meccanica, un po’ come si ricorda uno scioglilingua imparato per gioco da bambini. E allora?
Claudio Mario Feruglio – ‘Vorrei che non diventasse mai notte’ – Foto fornita dall’artista
E allora, forse, bisognerebbe contemporaneamente cercare di non ‘di-menti-care’ ma allo stesso tempo di non ‘s-cor-dare’. Per far sì che l’Olocausto non cada nell’oblio, credo ci sia bisogno dell’impegno dell’essere umano tutto per intero: mente e cuore, fare memoria ma senza perderne l’umano ricordo, quel ricordo che provoca un’emozione.
Specifiche foto:
Titolo: Ignoto pittore del gotico internazionale, Trionfo della Morte, 1440-50 circa -FG02.jpg
Autore: Fabrizio Garrisi
Licenza: Wikimedia Commons
Link: File:Ignoto pittore del gotico internazionale, Trionfo della Morte, 1440-50 circa -FG02.jpg – Wikimedia Commons
Foto modificata