Murales della sirena Partenope, Napoli – Statua di sirena (370 a.C.), Museo Archeologico Nazionale di Atene – Foto: Giorgio Manusakis

Le sirene, con il loro canto melodioso, possono essere viste come simbolo di bellezza e seduzione, ma anche come monito contro la tentazione e la lussuria.

a cura di Mario Severino

Il carattere ammaliatore del canto sirenico

L’immagine più diffusa delle sirene è sicuramente quella classica, descritta nell’Odissea di Omero e nelle Argonautiche di Apollonio Rodio. Secondo tali fonti esse abitano un’isola presso Scilla e Cariddi e incantano i marinai con il loro canto melodioso, causandone il naufragio. C’è da notare, tuttavia, che in questa tradizione, che le considera come creature portatrici di morte, non viene generalmente specificata una loro natura volutamente crudele, bensì potrebbe essere il loro destino e la loro funzione di cantatrici/incantatrici ad essere disastroso per gli uomini.

Statua di Omero/Filosofo – Marmo – I secolo d.C. – Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) – Foto: Giorgio Manusakis

È nel Medioevo che viene spostata l’attenzione dal loro canto al loro corpo. La malia della sirena non sta più tanto nella sua voce incantata ma nella voluttuosità delle sue forme, utilizzate come simbolo della lussuria e della tentazione che allontana da Dio e porta alla condanna divina. Comuni sono le raffigurazioni di sirene sui capitelli all’interno delle chiese romaniche come monito contro i peccati carnali. Nelle illustrazioni e nelle miniature sono spesso raffigurate con in mano un pettine e uno specchio: l’uno a indicare la sensualità (nel gesto del pettinarsi i lunghi capelli, un tempo potente strumento di seduzione), l’altro a sottolinearne la vanità. La sirena, quindi, diventa un essere demoniaco, tentatore, ingannevole, pronto ad uccidere dopo aver incantato.

Le sirene e il culto dei morti

In varie tradizioni le sirene sono ancelle della dea Persefone, regina dell’Oltretomba, con cui stavano giocando e raccogliendo fiori quando questa fu rapita da Ade. Demetra, come punizione per non aver cercato di impedire il ratto della figlia, le trasformò in tali esseri. Nelle Metamorfosi di Ovidio sono le stesse ancelle a chiedere agli dei di essere trasformate in uccelli per poter meglio ricercare la perduta amica divina. Secondo varie fonti, importante è il ruolo delle sirene nei culti funerari: esse stazionavano alle porte dell’Ade con il compito di consolare le anime dei defunti con il loro dolce canto e di accompagnarle negli inferi.

In Euripide, Elena, protagonista dell’omonima tragedia, le invoca affinché le diano conforto con la loro musica: “Voi piumate vergini / figlie della Terra, voi / Sirene invoco, ai pianti miei / venite qua, col libico / flauto o con le cetre: siano per i miei / tristi lutti, consone lacrime, / pianti per pianti, per musiche musiche”.

Questo stretto collegamento con il mondo dei morti, testimoniato dalla ricorrente presenza delle loro immagini nel corredo delle tombe, fa supporre ad alcuni autori che le sirene fossero in origine degli uccelli in cui trovavano dimora le anime dei defunti, considerando il ruolo che i volatili avevano nell’antichità come tramite fra il mondo dei vivi e l’aldilà.

Statua funebre di Sirena (330-320 a.C.) – Museo Archeologico Nazionale di Atene – Foto: Giorgio Manusakis

La sirena nella filosofia

Le sirene rappresentano un’immagine divina anche nella filosofia classica. Nel Cratilo di Platone, Socrate osserva che tali esseri partecipano al desiderio delle anime dei morti, spoglie dei loro corpi, di permanere nel regno dell’Ade. Tale aspirazione corrisponde alla ricerca della virtù ed è tipica della figura del filosofo. Alla luce delle indicazioni teologiche di Platone, il medioplatonico Plutarco scrive di come Ammonio l’Egiziano identificò le sirene platoniche con quelle omeriche: in qualità di guide delle anime nell’aldilà, tali creature suonano una musica il cui incantesimo ha il potere di portare l’oblio dei ricordi mortali alle anime, avvicinandole al cielo. L’eco della musica delle sirene, sulla Terra, porta ai mortali i ricordi delle vite passate. Secondo il neoplatonico Giambico il loro canto nei cieli è senza parole, è la musica delle sfere e richiama il ruolo che tali esseri avevano per la scuola pitagorica degli acusmatici, facendo parte della cosiddetta ‘tetrade’, cioè l’armonia.

L’Accademia di Platone (I sec. a.C.) – Mosaico – Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) – Foto: Giorgio Manusakis

La sirena bicaudata

Strabone, in Gheographikà (I,22) scrive che i popoli marinari di Napoli, Sorrento, della Calabria e della Sicilia veneravano le sirene. La Suda, enciclopedia bizantina del X secolo, ci fa sapere che a Napoli fu eretta una statua di Partenope (“Νeapolis, urbs Ιtalie celebris, in qua Parthenopes Sirenis statua collocata est”), ma non spiega se, nell’epoca in cui fu redatta, il suddetto monumento era ancora esistente.

Secondo un paganesimo più antico e di origine più incerta, la sirena potrebbe rappresentare la ‘dea madre’, colei che dà e toglie la vita; guida, guarisce, nutre, custodisce, vede, sente e sa; ama, tesse e collega. La sirena appare quindi simbolo positivo di fertilità e protezione negli edifici religiosi. In particolare, essa, nella sua forma bicaudata, rappresenta la madre che spalanca il ventre per generare ed immortalare il genere umano, la famiglia, la comunità. La posizione delle sue code non è casuale: queste non sono mai unite, incrociate o attorcigliate, ma invece ampiamente divaricate. Il senso è esattamente quello di richiamare idealmente le gambe femminili aperte nell’atteggiamento di colei che mostra la propria parte più sacra, più intima: la porta della vita. La figura della sirena bicaudata è stata analizzata in vari contesti da diversi studiosi nel corso della storia. Tra questi ricordiamo la mitologa e antropologa Marija Gimbutas, che ha esplorato le connessioni tra le divinità femminili, la fertilità e le culture preistoriche dell’Europa. La studiosa ha suggerito che molte delle immagini di donne serpente, sirene e altre figure bicaudate rappresentassero divinità legate alla fertilità e alla maternità, riflettendo un culto della dea madre presente in molte culture antiche. Tale concetto rientra perfettamente nell’idea di abbondanza, salute e fertilità: d’altro canto l’archeologia ci ha fatto dono di centinaia di esempi simili, basti pensare a Sheela Na Gig, la dea che apre la propria vulva con le mani; oppure alla dea indiana personificata da Devi o Kali, raffigurata in piedi con le gambe aperte mentre fluisce il suo yoni-tattva (il liquido vaginale sacro). Tra la popolazione dei Tlingit (nativi americani) la Dea Madre è un’orsa totemica con le zampe divaricate che accoglie e lascia ‘uscire’.

Bottega di Giovanni Merliano detto Giovanni da Nola – Sirena bicaudata – XVI sec. – Museo Filangieri, Napoli – Foto: Giorgio Manusakis

Il caso di Atargatis

Raffigurazioni di entità con la coda di pesce, ma con la parte superiore del corpo dalle forme umane, sono molto antiche e compaiono già nell’arte mesopotamica. Atargatis, dea assira della generazione e della fertilità, secondo quanto riporta Diodoro Siculo, era spesso raffigurata con sembianze di donna-pesce. Il suo nome è una composizione di due parole. La prima, Atar, è una forma dell’ugaritico Athart e dell’himyaritico ‘Athatar; l’equivalente di Ashtoreth dell’Antico Testamento e del fenicio Ashtart, reso in greco come Astarte. Il secondo termine, gatis, potrebbe essere in relazione con il greco gados ‘pesce’. Quindi, Atar-gatis potrebbe semplicemente significare ‘la dea-pesce Atar’. Come conseguenza della prima metà del nome, Atargatis è stata frequentemente, benché in maniera errata, identificata con Ashtart. Le due divinità hanno avuto probabilmente origini comuni e condividevano anche molte caratteristiche, ma i loro culti sono distinti storicamente. Troviamo riferimenti nel Primo libro dei Maccabei (5.43) ad un Atargateion o Atergateion, un tempio di Atargatide, a Carnion in Gilead, ma il nome della divinità era senza dubbio non israelita o cananeo, bensì siriano.

Sirena in pietra tenera – III sec. a.C. – Museo Archeologico Nazionale di Taranto – Foto: Giorgio Manusakis

Atargatide era comunemente conosciuta dai greci con il nome Derceto o Derketo (Strabone, Gheographikà XVI, 975; Plinio il Vecchio, Naturalis Historia V, 81), e in latino come Dea Syria (“Dea della Siria”, resa in una sola parola come Deasura). A tale divinità lo scrittore greco Luciano di Samosata dedica nel II secolo d.C. l’opera De Dea Siria, ambientata ad Hierapolis, l’attuale Aleppo, di cui Atargatide fu fondatrice. Secondo Victor Berars il nome Siria deriverebbe dall’ebraico sir (canto) e la stessa parola sirena da sir hen (canto attraente). Furono i mercanti siriani a diffondere il culto della dea nel mondo latino e nell’Europa del nord; esso verrà però contaminato da quello delle altre dee già presenti nel Mediterraneo. Siria nel mondo greco-romano viene assimilata a Giunone e a Cibele e, come nel caso di quest’ultima, i suoi sacerdoti erano uomini evirati e vestiti da donna.

Mosaico con Sirena e Amorino (I sec. a.C.) – Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) – Foto: Giorgio Manusakis

Nelle sfumature delle sirene il riflesso di mutamenti storico-culturali

Il mito delle sirene presenta una molteplicità di simboli e significati, rivelando la dualità della loro essenza. Questa ambivalenza si riflette non solo nelle antiche narrazioni, ma anche nelle varie interpretazioni filosofiche e nelle rappresentazioni artistiche che si sono susseguite nel corso dei secoli. La loro evoluzione da divinità benevole a simboli di tentazione riflette i cambiamenti culturali e le paure collettive nel corso della storia. Più che un mito, quello della sirena rappresenta un archetipo e il suo canto esprime l’eterna lotta tra il richiamo della bellezza e il rischio della perdizione; tra il desiderio e la paura; tra il fascino dell’ignoto e la ricerca di un contatto con il divino.

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