Donald McCullin, ‘The Guvnors in their Sunday Suits, Finsbury Park, London 1958’ – Foto: Stefania Rega

Il fotogiornalismo di guerra è nato, si può dire, insieme alla fotografia. Era il 1855 quando Roger Fenton, un pittore con la passione folgorante per la nuovissima invenzione chiamata fotografia, accettò l’incarico di Sua Maestà la regina Vittoria: doveva documentare con le immagini la guerra in Crimea. Fenton partì al seguito dell’esercito inglese e, nonostante la tecnica fotografica fosse ancora così rudimentale da permettere di scattare solo immagini in posa, tornò in patria con 300 scatti. Il potere era sempre stato molto attento alle potenzialità delle arti e al tornaconto che ne poteva ottenere. La fotografia non è sfuggita al suo radar. Da quel primo incarico, i fotoreporter di guerra hanno assunto un ruolo sempre più ampio e stabile. Ovviamente il rapporto con i governi che le guerre le dichiarano e le fanno non è sempre stato amichevole, anzi. Un fotoreporter può essere ostile ad una o ad entrambe le parti in lotta, può parteggiare per una sola, o per nessuna delle due. Ma sempre, in qualsiasi situazione, rischia la vita. Non sono pochi quelli che l’hanno persa ancora con la macchina fotografica in mano: il grande Robert Capa, Chris Hondros, Tim Hetherington, l’italiano Andrea Rocchelli, il polacco Krzysztof Miller e lo statunitense Brent Renaud. Tutti morti mentre documentavano un conflitto.

Sorte migliore, relativamente almeno, ha avuto Don McCullin. È nato a Londra nel 1935 e, dopo aver girato mezzo pianeta inseguendo e documentando guerre, epidemie e carestie si è ritirato a vivere in Gran Bretagna, nel tranquillo e bucolico Somerset, insieme alla seconda moglie, ai cinque figli e ai mille fantasmi delle sue drammatiche esperienze.

La sua biografia ha del romanzesco. Cresciuto in una famiglia povera in un quartiere malfamato di Londra, Finsbury Park, perde il padre ancora bambino ed è costretto a lasciare la scuola per andare a guadagnare qualche soldo. Il suo destino è la banda di criminali del quartiere in cui inizia a bazzicare da adolescente. Ma il destino può cambiare direzione, talvolta. O lasciare spazio al talento. Il talento di Donald McCullin fa capolino quando all’età di ventuno anni, nel 1956, il ragazzotto rissoso di periferia viene arruolato nella RAF, l’aeronautica militare britannica, e inviato come assistente fotografo nel canale di Suez, sconvolto dalla crisi di quell’anno fatale. È in quella occasione che McCullin incontra l’arte della fotografia, compra la sua prima macchina ed entra in camera oscura. Non smetterà mai più di scattare, né di sviluppare personalmente i suoi negativi. Il primo giornale a pubblicargli una foto è The Observer: l’immagine ritrae la banda dei Guvnors, malviventi del quartiere che McCullin conosceva uno ad uno. I sei ragazzi in posa e benvestiti tra le macerie di un edificio bombardato saranno il suo lasciapassare. Nel mezzo secolo successivo invierà le sue immagini crude e commoventi, in un bianco e nero implacabile e di una composizione solidissima, dai più violenti teatri di guerra del pianeta, da Paesi straziati da carestie o decimati dall’AIDS. Andrà in Biafra, Vietnam e Irlanda del Nord, e poi Cipro, Congo, Libano e Bangladesh. Senza dimenticare la sua ricca madrepatria, il Regno Unito di Gran Bretagna, di cui documenta sempre le aree più degradate e sofferenti.

Ha pubblicato una quindicina di volumi e ha ricevuto altrettanti riconoscimenti, tra cui il World Press Photo of the Year e il Cornell Capa Award. I suoi lavori sono nelle collezioni permanenti dei maggiori musei londinesi e sono stati raccolti in varie mostre.

Oggi anche Roma dedica a questo artista, istintivo e metodico al tempo stesso, una bellissima retrospettiva, Don McCullin a Roma. Nelle sale del Palazzo delle Esposizioni, fino al 28 gennaio 2024, è possibile ammirare da vicino una buona scelta della sua vastissima produzione.

L’ottima curatela della mostra ha diviso il materiale in 5 grandi sezioni: Esordi, Guerra e conflitti, Immagini documentarie del Regno Unito, Immagini documentarie dell’estero, Paesaggi e Nature Morte. In ogni sezione è sempre l’immediatezza dello stile di McCullin a catturare l’occhio. Sia che si tratti di una madre che allatta il bimbo ad un seno secco, o di un barbone che dorme in strada nella periferia di una delle più opulente città del mondo, o di un paesaggio al tramonto, le immagini sono così pulite e nitide che sembra si possano animare in qualsiasi momento. Il più delle volte, il soggetto guarda direttamente nell’obiettivo, sa di essere ritratto e di poter dire qualcosa con la sola presenza fisica. Per questo motivo non sorprendono certe affermazioni del fotografo britannico. In una intervista a Frank Horvat dice: “Queste fotografie sono documenti, non icone, non opere d’arte da appendere al muro. Non è colpa mia se la luce di Sabra e di Shatila aveva qualcosa di biblico, se le scene che si svolgevano sembravano disegnate da Goya. Io non ero lì per fare delle opere d’arte, ma per riportare dei documenti che potessero evitare il ripetersi di quegli orrori. Non voglio essere considerato un artista, non si ha il diritto di fare dell’arte con la sofferenza degli altri. Volevo fare un buon lavoro, nient’altro.”

Donald McCullin, ‘Donna che allatta, Biafra, 1968’ – Foto: Stefania Rega

Per McCullin un buon lavoro è un messaggio che possa, se non cambiare il mondo, almeno migliorarlo. La lingua in cui lo lancia è la fotografia, la sintassi è il suo stile asciutto. McCullin partecipa emotivamente, quasi affettivamente, a ciò che fotografa. E ciò che fotografa è fatalmente ciò che vede. Come lui stesso ha precisato, non ha mai alterato una scena prima di fotografarla. Quello che noi vediamo è ciò che lui ha visto.

Nella sua lunga carriera si è dedicato anche a progetti meno drammatici. Ad esempio, un reportage sui Beatles all’apice della loro carriera dal quale scaturì The Mad Day Out nel 1968. Più recentemente ha invece pubblicato Southern Frontiers: A Journey Across the Roman Empire, uno studio documentaristico sulle rovine del periodo romano nelle regioni del Nord Africa e del Medio Oriente.

Eppure, il suo nome resta indissolubilmente legato al fotogiornalismo di guerra e il suo lavoro identificato con alcune delle immagini più drammatiche della storia di questa attività di documentazione fotografica. Come non ricordare il bambino di colore stremato dalla fame, ridotto ad uno scheletro ma con la forza ancora di guardare nell’obiettivo di uno sconosciuto. Come non ricordare il primo piano di un soldato, con l’elmetto in testa, la divisa e l’espressione scioccata di chi ha appena assistito all’orrore ma non riesce a raccontarlo.

Donald McCullin, ‘Bambino in fin di vita, Biafra, 1968’ – Foto: Stefania Rega

Il dramma dell’uomo McCullin è di aver sempre, per istinto, inseguito i luoghi e i momenti in cui l’umanità ha mostrato i suoi tratti più crudeli. Come Salgado, altro grande fotografo testimone della follia umana, anche McCullin ad un certo punto ha dovuto smettere: gli orrori visti per decenni hanno minato la stabilità emotiva di entrambi i fotografi. E come Salgado si è ritirato nella sua fattoria in Brasile, così McCullin si è ritirato nella casa del Somerset.

Negli ultimi decenni ci ha regalato paesaggi poetici della sua terra quasi disabitata. Ampie vedute di campi, qualche albero, una striscia di colline laggiù in fondo e, su tutto, un cielo altissimo. Eppure, non ci sono colori in queste foto. Anche il Somerset è in bianco e nero. L’anima di McCullin resterà ferita per sempre. “Ho deciso di condannarmi alla pace”, dice ancora nell’intervista di Horvat. La pace non può essere un dono per un uomo vissuto sempre in guerra.

Nel Palazzo delle Esposizioni sono in mostra anche alcuni effetti personali di McCullin. In una teca sono raccolti alcuni passaporti, un elmetto, una bussola. Ricordano un po’ l’elmetto e il giubbotto antiproiettile che Oriana Fallaci mostrava quando poteva, quelli che le avevano salvato la vita in Vietnam. Gli effetti personali in una mostra del genere hanno il potere di riportare l’artista, in questo caso il temerario quasi eroico McCullin, in una dimensione più umana. Si potrebbe immaginare che fosse, o che sia ancora oggi, facile per un fotografo assistere ad una guerra, fotografarla e tornare nella sicurezza della propria casa. In realtà i fotografi vengono aggrediti, picchiati, umiliati. Rischiano la vita e talvolta, come abbiamo visto, muoiono. Eppure partono. Qualcuno parte per ambizione, qualcun altro per incoscienza. McCullin partiva perché anche se la violenza e il dolore gli sono risultati sempre familiari, non ha mai abbandonato il sogno di poter alleviare il carico di dolore dell’umanità. La sua idea di fotografia è militante, schierata e di denuncia. Eppure la sua opera è innegabilmente poetica, compassionevole e, in fondo, umanissima.

Gli effetti personali di McCullin in esposizione – Foto: Stefania Rega

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