Trama

Alle prese con i lavori di allestimento di un atelier in via Po a Torino, nell’immediato dopoguerra la modista Clelia torna da Roma, dove si era trasferita per lavoro, nella città natale e decide di alloggiare in albergo.

La prima sera del suo arrivo vede uscire da una camera una barella che trasporta una giovane donna: stando a quanto dice una cameriera, si sarebbe avvelenata. Il giorno dopo, in un salotto della Torino bene, saprà che la giovane che aveva tentato il suicidio si chiama Rosetta Mola. Chi la conosce, senza empatia né compassione, la presenta come la figlia pazza di ricchi torinesi proprietari di una fabbrica. Quella sera Clelia lascia il gruppo, dopo averne ascoltato i discorsi, convinta di non appartenere a quel mondo e di non rivederne più i membri. Le cose andranno diversamente, perché non solo sentirà altre storie su Rosetta, ma finirà per conoscerla durante una gita a un rifugio propostole da Febo, un architetto giunto da Roma per aiutarla a sistemare il negozio, e organizzata da Momina, Nene e altre ricche borghesi.

Passano venti giorni dal tentato suicidio di Rosetta. Tra un impegno lavorativo e l’altro, Clelia trova il tempo per una gita a Saint Vincent con il gruppo. Giunti a destinazione, gli amici si disperdono nelle sale da gioco, mentre le donne si fermano a chiacchierare del più e del meno, fino a quando accennano a una recita che stanno preparando. Si tratta di una tragedia e questo offre a Momina l’occasione per chiedere a Clelia com’è stato vedere Rosetta esanime sulla barella. Clelia, tranquillizzata del fatto che Rosetta, presente alla gita, dice di non provare vergogna per quanto fatto, sostiene che le era sembrata una disgrazia. Dopo essere rientrata a Torino, Clelia si butta a capofitto nel lavoro, definito “il suo vizio” da chi l’ha introdotta nella borghesia produttiva. Si rende conto che è un mondo fatto da persone non libere e padrone della realtà, come invece se le immaginava da bambina.

Per quanto ormai disillusa, Clelia, conscia che lo star bene da sola sia il suo unico vero vizio, ne esce più consapevole di sé, al punto che la sua personalità non sembra affatto scalfita dalla cattiveria gratuita generata dagli altri attraverso il pettegolezzo. Il cinismo la accomuna a tutti gli altri personaggi, a eccezione del solo che, tanto ingenuo da prendere le cose sul serio, decide di levarsi di mezzo per sempre.

Perché leggerlo

Quando il romanzo breve uscì, nel 1949, alcuni intellettuali espressero perplessità per il linguaggio, considerato troppo mascolino, e per la rappresentazione del mondo borghese, descritto nella sua ovvietà. Se ieri il ritratto fatto da Cesare Pavese poteva sembrare a tinte fosche, oggi risulta una critica velata a una società ancorata al formalismo più che alla buona educazione. Siamo abituati a contesti di vita molto degradati e violenti, che forse traggono origine dalla costante perdita di valori e interesse per l’umano denunciato in questo e altri romanzi del Novecento.

Leggerlo può essere utile per capire che la cultura dell’individualismo non ci è piombata dall’alto assieme a tutto ciò che ha favorito l’americanizzazione della società, italiana ed europea. Nel suo viaggio, che è quasi iniziatico, Clelia ci parla di un mondo borghese costruito da donne sole, circondate da uomini altrettanto incapaci di relazionarsi al prossimo fino a provare solidarietà e, quindi, vicinanza. Colpisce che Rosetta, la sola a nutrire dei sentimenti, che si trasformano in senso di vuoto, per la mancanza di dialogo, ascolto, intimità con l’amica o la famiglia, senta l’urgenza di porre fine a una routine piena di pettegolezzi. Mentre Clelia, donna che nel lavoro trova la sua fonte di equilibrio e di emancipazione, sopravvive perché sceglie sì di conoscere una realtà sognata sin da bambina consapevole delle proprie umili origini, ma è attenta a non farsi bloccare dalla logica utilitaristica che governa la vita di città.

La ripetitività di alcune scene e i discorsi talvolta sconclusionati dei suoi protagonisti sono espedienti con cui il narratore ci fa sentire noioso un mondo poco profondo e molto ripetitivo, nel quale è normale provare disagio.

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