In questa quarta puntata del nostro viaggio all’interno della Galleria degli Uffizi analizziamo alcuni dipinti di importanti pittori del manierismo italiano nonché due opere del grande Michelangelo Merisi, meglio noto con l’appellativo di Caravaggio, eseguite durante la sua permanenza a Roma.

Origine e significato del termine manierismo

Col termine manierismo si indica una stagione artistica inquadrabile tra i primi decenni del XVI secolo e gli inizi del Seicento. Esso deriva dalle espressioni grande e buona maniera coniate da Giorgio Vasari nella sua opera letteraria, le Vite dè più eccellenti pittori, scultori e architettori, per identificare la produzione degli artisti del suo tempo, ispirata al linguaggio dei tre grandi del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Contraddistinta in origine, dunque, da un’accezione positiva la parola acquisì nel corso del Seicento e del Settecento un significato del tutto opposto. Le opere dei manieristi, dando l’impressione di ripetere sempre i medesimi schemi e modelli, furono ampiamente svalutate dai critici per la mancanza di naturalismo. Soltanto nel Novecento si assiste ad una riconsiderazione di questa produzione in virtù dei suoi caratteri anti-classici che la rendevano, dunque, molto più all’avanguardia rispetto a quella dei tre maestri del Rinascimento. Allo stato attuale, alla luce dei più recenti studi, tale stagione non andrebbe vista in maniera del tutto unitaria, essendovi differenze di stile e di tecnica tra gli artisti operanti nei vari contesti della penisola. In linea di massima, nel caso della pittura, come elementi ricorrenti quasi ovunque, almeno sino all’avvento della rivoluzione caravaggesca e del Barocco, emergono le figure serpentinate e spesso gigantesche; gli scorci audaci, che portano spesso alla perdita delle giuste proporzioni e delle simmetrie rinascimentali; un’ampia varietà dei colori e l’esaltazione dei concetti di grazia ed eleganza specialmente nella trattazione di temi religiosi e cortigiani.

Il manierismo emiliano di Correggio e Parmigianino

Un manierista sui generis fu senza dubbio Antonio Allegri, meglio noto con l’appellativo di Correggio, dal nome del suo paese natale in provincia di Reggio Emilia. L’artista, infatti, partendo sempre dai modelli michelangioleschi e raffaelleschi, elaborò uno stile del tutto autonomo, basato su un uso accurato della luce che, insieme ad un’ampia gamma di cromie, definisce masse corporee e volumi. Nella Galleria degli Uffizi possiamo ammirare un’opera di straordinaria dolcezza come la Madonna in adorazione di Gesù Bambino, nella quale viene illustrato il racconto di una visione mistica avuta da S. Brigida di Svezia sul finire del Trecento. Nel dipinto, eseguito tra il 1518 ed il 1520 per un ignoto committente, successivamente posseduto da Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova, e da questi donato al granduca Cosimo II, si evidenziano gli influssi esercitati su Allegri dal classicismo di Mantegna, studiato nel suo soggiorno a Mantova, e dal vivace colorismo veneto. Quest’ultimo emerge nella ricchezza dei colori utilizzati per l’abbigliamento di Maria così come nella rappresentazione del cielo mattutino e del paesaggio naturale alle spalle del gruppo familiare. Ad accentuare la tenerezza di questa scena è, infine, il braccino di Gesù che cerca di afferrare la veste di sua madre.

Correggio, ‘Madonna in adorazione di Gesù Bambino’ (1518-20) – Foto: Angelo Zito

Un altro importante artista che ritroviamo in Emilia nella prima metà del Cinquecento è Francesco Mazzola, soprannominato il Parmigianino sia per le sue origini parmensi che per la sua minuta corporatura. Proprio nella sua città natale il pittore riceve da Elena Baiardi Tagliaferri la committenza della Madonna con Bambino e angeli, meglio nota come Madonna dal collo lungo. Tale dettaglio anatomico, per quanto apparentemente curioso ed inusuale, va ricollegato al verso di un antico inno mariano in cui il collo della Vergine viene paragonato ad una colonna. Nel dipinto in questione possiamo vedere il primo di una fila di fusti che si sviluppa in profondità ed appartiene ad un antico tempio pagano. L’iscrizione latina posta sul basamento dell’edificio ricorda come l’opera, che fu iniziata intorno al 1534, non fosse stata completata da Parmigianino a causa della sua improvvisa morte nel 1540. Ciononostante, essa fu prima esposta alla venerazione dei fedeli nella cappella Baiardi della Chiesa di S. Maria dei Servi e poi acquistata sul finire del Seicento dal gran principe Ferdinando dei Medici. Da un punto di vista tematico la dolcezza del tema è in qualche modo mitigata dal presagio della Passione di Cristo, a cui allude una croce riflessa sul vaso tenuto da uno degli angeli alla nostra sinistra. In basso a destra, invece, la figura che srotola una pergamena è San Girolamo, il quale doveva forse essere affiancato da San Francesco, promotore del culto dell’Immacolata, di cui però l’autore riuscì a disegnare soltanto un piede. Il carattere affusolato del collo della Madonna contraddistingue anche le sue dita e la gamba nuda dell’angelo con il vaso, che conferisce un tocco di sensualità alla scena. Ulteriori elementi anti-classici sono la distribuzione disomogenea e disordinata dei personaggi, che si sovraffollano alla destra della Vergine, e la posizione quasi cadente di Gesù Bambino, che tra l’altro non è neonato ma già in un’età intorno ai sei anni. In ultima analisi, nel considerare la disposizione dei due protagonisti nonché altri dettagli, come la cinta obliqua che scende lungo il corpo di Maria, alcuni studiosi ritengono di vedere nel tema religioso un richiamo alla Pietà di Michelangelo.

Tiziano e la Venere di Urbino

Sempre restando nella prima metà del Cinquecento, è quasi d’obbligo soffermarci sulla Venere di Urbino di Tiziano Vecellio. L’artista di Pieve di Cadore realizzò intorno al 1538 questo quadro, di cui non si conosce il committente ma che venne acquistato dal duca Guidobaldo II della Rovere. Un’erede di questa famiglia, Vittoria, sposandosi con il granduca Ferdinando II, portò a Firenze il dipinto che fu collocato nella Tribuna degli Uffizi accanto alla Venere Medici. Come quest’ultima statua dell’antichità classica, così anche la dea tizianesca esprime una grandissima sensualità, esaltata dalle sue belle forme e dallo sguardo languido ma al contempo bilanciata dall’atteggiamento pudico di coprirsi il pube. Nella divinità qui raffigurata possiamo identificare una delle tante fanciulle aristocratiche veneziane del Cinquecento che, aiutata da ancelle come quelle che si vedono in secondo piano nel quadro, si accinge a prepararsi e agghindarsi per il “toccamano”, rito domestico che sanciva il consenso della nubenda al suo promesso sposo. Attraverso l’uso sapiente dei colori Tiziano riproduce fedelmente i tipici interni ed arredi dei palazzi nobiliari del suo tempo in Laguna. Da notare sul letto vicino a Venere la presenza del cagnolino addormentato, simbolo di fedeltà coniugale che il pittore utilizza anche in un’altra opera custodita agli Uffizi: il ritratto di Eleonora Gonzaga.

La maestria del Vasari pittore nel ritratto di Lorenzo il Magnifico

Tra gli esponenti del manierismo toscano è doveroso ricordare anche colui che fu il progettista degli Uffizi, Giorgio Vasari, il quale, oltre che nel campo dell’architettura e della letteratura, mostrò anche ottime doti come pittore. Nella Galleria fiorentina è conservato un celebre ritratto di Lorenzo il Magnifico, commissionato tra il 1533 ed il 1534 da Ottaviano dei Medici, il quale, con la celebrazione del famoso antenato, voleva ribadire la legittimità del potere della sua famiglia all’indomani della fine dell’esperienza politica repubblicana. Il duca è qui raffigurato nella sua quotidianità, con indosso un semplice abito azzurro rivestito di pelliccia sulle maniche e soprattutto nella durezza dei suoi lineamenti. A rendere però interessante il dipinto sono alcuni oggetti presenti alle spalle del protagonista. Presso un pilastro sul quale egli si appoggia, troviamo un’epigrafe latina che ricorda la sua funzione di lumen, ovvero di modello morale, politico ed intellettuale per i suoi eredi: una virtù, quest’ultima, che lo stesso Lorenzo aveva già ricevuto dai suoi avi. A rafforzare visivamente questo concetto è la presenza di una lampada il cui olio va a cadere sullo stoppino posto nella bocca di una maschera teatrale. In ultima analisi, va ricordato come Vasari avesse dedicato al Magnifico, oltre a questo quadro, anche alcuni passi delle sue Vite così come varie raffigurazioni all’interno del ciclo di affreschi da lui eseguito in Palazzo Vecchio.

Giorgio Vasari, ‘Ritratto di Lorenzo il Magnifico’ (1533-34) – Foto: Angelo Zito

Le opere di Caravaggio nella rinnovata sezione museale

Al passaggio dal ‘500 al ‘600 irrompe sulla scena italiana la figura di Michelangelo Merisi, più comunemente noto con il nome del suo paese di provenienza: Caravaggio. Tra le opere dello straordinario artista lombardo custodite agli Uffizi, segnaliamo in particolare due dipinti facenti parte di una donazione del cardinale Francesco Maria Del Monte, per il quale lavorò durante l’ultimo decennio del 1500, al duca Ferdinando I Medici in occasione del matrimonio di suo figlio Cosimo II nel 1608. Il primo dei due è il Bacco, rappresentazione del dio del vino, in cui si evince ancora lo stile giovanile “in chiaro” che connota anche altri grandi quadri come il Canestro di frutta della Pinacoteca Ambrosiana e il Fanciullo morso da un ramarro della Fondazione Longhi. La resa dei frutti nella cesta, alcuni dei quali visibilmente bacati, così come del liquido presente nel calice e nella brocca di vetro è però già caratterizzata da uno straordinario realismo. Nel volto di Bacco, dalle guance rosse per l’ebbrezza, alcuni studiosi ritengono di vedere un ritratto di Mario Minniti, pittore siciliano amico del Merisi, mentre altri associano quest’immagine a quella immortalata in alcuni busti e sculture di Antinoo, il giovinetto amato dall’imperatore Adriano. Proprio quella Roma dell’antichità classica, permeata dal gusto e dalla ricerca dei piaceri, è la stessa che Caravaggio ritrova negli alti ambienti nobiliari ed ecclesiastici di fine Cinquecento. L’opera, finita nel dimenticatoio dei depositi degli Uffizi, è riemersa solo nel 1913 attraverso il riconoscimento da parte dello storico Roberto Longhi.

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, ‘Bacco’ (1598 ca.) – Foto: Angelo Zito

La seconda delle due opere caravaggesche donate dal Cardinale Del Monte a Ferdinando I è uno scudo dipinto con l’immagine di Medusa. La “rotella”, realizzata su un supporto fatto di legno di pioppo, fu particolarmente apprezzata dal granduca il quale decise di sistemarla nel 1631 sul braccio di un manichino raffigurante un cavaliere e posizionato nella Sala dell’Armeria, sezione degli Uffizi dismessa del tutto nel Settecento. La scelta di Medusa, personaggio mitologico decapitato dall’eroe Perseo e qui colto nel momento della sua uccisione, si richiamerebbe alla celebrazione dei valori di prudenza e sapienza. Il fondo verde, che sembra appiattire la convessità dello scudo, nonché l’uso omogeneo della luce permettono di visualizzare al meglio i lineamenti del suo volto sofferente, i fiotti di sangue al di sotto del capo e i capelli serpentinati.

Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, ‘Scudo con testa di Medusa‘ (1598 ca.) – Foto: Angelo Zito

A partire dal febbraio 2018 all’interno degli Uffizi è visitabile una rinnovata sezione, intitolata Caravaggio e il Seicento, dedicata al grande artista lombardo e al fascino che ha saputo esercitare sui suoi contemporanei e sulle generazioni seguenti di pittori. Nella sala in cui ammiriamo oggi la Medusa, è stato posizionato il quadro di analogo soggetto mitologico dipinto da Otto Marseus ma in passato ritenuto erratamente opera di Leonardo da Vinci. In quella che ospita il Bacco sono state, invece, collocate due Dispense di Jacopo Chimenti, soprannominato l’Empoli per i suoi natali presso la cittadina toscana, una natura morta di Diego Velazquez e un vaso di Carlo Dolci. Infine, degne di menzione e soprattutto di essere visitate sono le sale incentrate sui confronti con lo stile di Artemisia Gentileschi, ed in particolare con la Giuditta che decapita Oloferne, e sui legami tra il caravaggismo e l’arte di maestri fiamminghi del calibro di Rembrandt e Rubens.

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