Sandro Botticelli, ‘Nascita di Venere’ – Foto: Angelo Zito

In questa seconda puntata del nostro viaggio all’interno delle sale della Galleria degli Uffizi, ci occupiamo della fiorente stagione artistica del Rinascimento, analizzando le opere di alcuni grandi maestri della scuola toscana vissuti nel corso del Quattrocento

La Toscana può essere considerata a pieno titolo come la regione culla del Rinascimento. Con questo termine viene indicata una stagione artistica nella quale, in parallelo con le discipline letterarie, si assiste ad un recupero dell’antichità classica, che assume dunque la funzione di modello ispiratore per diverse generazioni di pittori, scultori e architetti. Nell’immaginario collettivo, a differenza del Medioevo, l’uomo acquista una rinnovata centralità in quanto faber ipsius fortunae, ossia soggetto capace di autodeterminarsi e di fronteggiare, pertanto, le avversità della Fortuna e della Natura. Tutto ciò, però, può avvenire solamente attraverso un’adeguata formazione spirituale e culturale. Da qui, dunque, la necessità di coltivare il sapere in tutte le sue forme, compresa, ovviamente, quella artistica.

Gli inizi del Rinascimento: la S. Anna Metterza e la Madonna di Pontassieve

Nel nostro excursus all’interno della Galleria degli Uffizi, una delle opere che meglio ci introduce in questa nuova stagione è la cosiddetta Sant’Anna Metterza. La pala d’altare, commissionata da Nofri Buonamici intorno al 1424-1425 per la sua cappella di famiglia presso la chiesa fiorentina di S. Ambrogio, è realizzata da due autori toscani, attivi insieme anche in un altro contesto prestigioso come la Cappella Brancacci del Carmine: Masolino da Panicale e Masaccio. Quest’ultimo, per quanto assunto in funzione di aiutante del primo, eseguì alcuni personaggi importanti presenti nella scena, ovvero la Madonna, il Bambino e l’angelo di destra. In particolare, nella piccola e corpulenta figura di Cristo, si coglie l’interesse di Masaccio per la resa naturalistica delle masse muscolari. Al più anziano ed esperto Masolino, invece, la critica attribuisce la realizzazione degli altri angeli e soprattutto di S. Anna. Il titolo di Metterza, qui attribuitole, che deriva dall’aggettivo tosco-medievale mettertia, ossia “medesima terza”, fa riferimento sia alla sua posizione nel dipinto sia al suo ruolo di genitrice della Madonna e di progenitrice di suo Figlio.  Secondo lo studioso Roberto Longhi, che con le sue ricerche confermò la tesi dell’esecuzione a quattro mani della pala (inizialmente si credeva che fosse stata interamente dipinta da Masaccio), nell’apertura delle braccia della madre di Maria si può leggere il profilo della cupola di S. Maria del Fiore, la cui mole sovrasta Firenze e copre con la sua ombra, così come scrisse l’architetto Leon Battista Alberti, “tutti i popoli toscani”. Come tale mirabile opera architettonica, anche la santa abbraccia, oltre sua figlia e suo nipote, l’intera città, la quale nutriva verso di lei una grandissima devozione in seguito alla cacciata del podestà-tiranno Gualtieri di Brienne, duca di Atene, avvenuta in occasione della sua festività, il 26 luglio 1343.

Masolino da Panicale e Masaccio, ‘Sant’Anna Metterza’ – Foto: Angelo Zito

Nel novero dei più importanti autori del primo Rinascimento non possiamo di certo escludere fra Giovanni da Fiesole, meglio noto con l’appellativo di Beato Angelico, fornito già da Vasari nelle sue Vite e realmente attribuitogli dalla Chiesa Cattolica nel 1982. La Madonna di Pontassieve, opera così denominata per la sua originaria collocazione presso la prepositura di San Michele Arcangelo del piccolo centro del Fiorentino, datandosi tra il 1435 ed il 1440 si inquadra nella maturità dell’artista religioso. Il dipinto è parte centrale di un polittico smembrato, i cui restanti pezzi sono andati dispersi nel corso del tempo. Il tema della maternità di Maria emerge in maniera assolutamente naturalistica e con una grande tenerezza, tipica dell’iconografia bizantina ed espressa soprattutto dal Bambino Gesù che accosta il suo volto a quello della madre, cingendole il collo con il braccio destro.  I colori usati per le vesti della Madonna, seduta su un trono senza schienale, ben si accordano con il fondo oro della tavola e con la raggiera alle spalle dei due protagonisti, simile ad un’altra eseguita dallo stesso Beato Angelico in un precedente dipinto, come l’Incoronazione della Vergine, anch’esso conservato alla Galleria degli Uffizi.

Beato Angelico, ‘Madonna di Pontassieve’ – Foto: Angelo Zito

Un piacevole intermezzo…il Dante di Andrea del Castagno

Ad uno dei figli più illustri di Firenze, Dante Alighieri, è dedicato un affresco eseguito intorno alla metà del Quattrocento da Andrea del Castagno. Il pittore è originario di S. Godenzo, piccolo centro situato a 50 km da Firenze nel quale dimorò in esilio nel 1302 il sommo poeta, partecipando tra l’altro ad un’assemblea contro i suoi storici rivali dei guelfi neri. L’opera in questione, recentemente restaurata ed esposta in una mostra tenutasi nel suddetto paese nell’estate del 2021, faceva parte di un ciclo pittorico eseguito dall’artista toscano a Legnaia all’interno della villa di Filippo Carducci, gonfaloniere di giustizia della Repubblica di Firenze. Il ritratto dell’autore della Divina Commedia, che si inseriva in una vera e propria galleria di uomini illustri del passato, fu staccato nel 1847 e trasferito stabilmente agli Uffizi in seguito all’alluvione dell’Arno del 1966. Nel pannello Dante è raffigurato in una posa leggermente scorciata, con lo sguardo rivolto alla sua sinistra ed il braccio teso nell’atto di chiedere la parola. I lineamenti somatici quasi giovanili, riportati ottimamente alla luce grazie ai recenti restauri, nonché l’abbigliamento, rappresentato dalla toga rossa e dal caratteristico copricapo bianco e rosso, potrebbero rifarsi, secondo J.M. Schaeffer, ad una sua immagine raffigurata da Taddeo Gaddi per la Basilica di S. Croce, purtroppo andata perduta, alla quale si sarebbe ispirato anche Domenico di Michelino per un ritratto in S. Maria del Fiore.

Andrea del Castagno, ‘Dante Alighieri’ – Foto: Angelo Zito

Nel secondo Quattrocento due grandissimi nomi: Piero della Francesca e Sandro Botticelli

Nella seconda metà del XV secolo, oltre all’avvento, anche sulla scena artistica, dello straordinario genio di Leonardo da Vinci, di cui vi parleremo nella prossima puntata del nostro viaggio, emergono due grandissimi nomi del Rinascimento italiano: Piero della Francesca e Sandro Botticelli. Del primo, nativo di Sansepolcro in provincia di Arezzo e così chiamato sia per il cognome di suo padre, Benedetto de Franceschi, che per il soprannome di sua madre, detta “la Francesca”, proponiamo nel nostro excursus il dittico dei duchi di Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza. Eseguito tra il 1473 ed il 1475, dotato di cerniere e custodito in una cornica lignea dorata non corrispondente a quella originaria, il dipinto è predisposto per essere aperto come un libro. Sul lato principale emergono da un paesaggio collinare, che si richiama a quello di origine del committente, esteso tra le Marche, la Toscana e l’Emilia Romagna, i profili di Federico e di sua moglie, che appaiono in una dimensione di atarassia, cioè di assenza di emozioni, nel rispetto di una tradizione quattrocentesca ispirata dalle monete e dalle medaglie celebrative. Sul lato posteriore, ritroviamo i due coniugi condotti su carri da virtù che alludono ai valori cristiani della coppia, richiamati al contempo dalle iscrizioni latine poste in basso.  Nel dittico Piero è precisissimo nel raffigurare ogni minimo dettaglio relativo tanto alle fisionomie (il naso rotto del duca, a seguito di un incidente, e la fronte alta e un po’ bombata di Battista), quanto agli ornamenti (i grani della collana della duchessa) ed al vestiario (i ricami del suo abito rosso). Da questi ultimi aspetti si evince dunque l’influenza esercitata dalla coeva pittura fiamminga, alla quale si associa l’applicazione rigorosa delle regole della prospettiva di cui lo stesso pittore scrisse nel suo trattato intitolato De prospectiva pingendi.

Piero della Francesca, ‘Federico da Montefeltro e Battista Sforza’, fronte – Foto: Angelo Zito

Piero della Francesca, ‘Federico da Montefeltro e Battista Sforza’, retro – Foto: Angelo Zito

Riguardo, invece, a Sandro Botticelli, gli Uffizi custodiscono un significativo nucleo di opere. Al di là di una formazione giovanile, ispirata da Andrea del Verrocchio e Piero del Pollaiolo (questi, insieme al fratello Antonio, realizza un ciclo di Virtù per l’Arte della Mercanzia custodito proprio agli Uffizi), il pittore fiorentino, il cui cognome in realtà sarebbe Filipepi (quello di Botticelli sarebbe la storpiatura di Botticello, nomignolo dato al fratello sensale Giovanni ed esteso a tutti i membri maschi della famiglia), sviluppa uno stile ed una poetica autonomi che lo rendono molto apprezzato dai Medici, ai quali velatamente dedica l’Adorazione dei Magi commissionata dalla famiglia di Gaspare Zanobi del Lama per la cappella di S. Maria Novella.  

Tra i suoi capolavori custoditi agli Uffizi la nostra scelta ricade su due di indiscussa bellezza e notorietà: la Primavera e la Nascita di Venere. Entrambi vengono menzionati intorno alla metà del 1500 da Giorgio Vasari in una sua descrizione della collezione della famiglia Medici conservata presso la villa di Castello. La Primavera, in realtà, eseguita intorno al 1480, viene già documentata nel 1498 nella casa di via Larga – oggi via Cavour – di Giovanni e Lorenzo di Pierfrancesco, cugini di Lorenzo il Magnifico. La tavola era posta, insieme ad un’altra raffigurante Pallade ed il centauro, sopra lo schienale di una cassapanca.  Nell’ambito di un giardino in cui sono state riconosciute più di 100 specie vegetali, partendo da destra si può riconosce Zefiro che trattiene e feconda la ninfa Clori. La figura che le è accanto ed è totalmente ricoperta da fiori è la stessa divinità trasformatasi in Flora. Al centro si staglia l’immagine di Venere, la quale, sovrastata dal saettante figlioletto Cupido, insolitamente ci appare vestita e sembra in qualche modo unificare le due parti in cui è diviso il quadro. Alla nostra sinistra, vediamo tre fanciulle danzanti, identificabili, anche secondo quanto scrive Vasari, con le Grazie, e una figura maschile intenta a dissipare le nubi, nella quale, alla luce dei calzari alati e del caratteristico copricapo (il petaso), si può riconoscere il dio Mercurio. Botticelli potrebbe aver tratto ispirazione, nella scelta del tema e dei personaggi, dalla lettura di autori classici, come Ovidio e Lucrezio, e di alcuni versi dell’amico e poeta neoplatonico Agnolo Poliziano. In merito al significato dell’opera, per molti aspetti enigmatico, è possibile ipotizzare che l’unione di Zefiro e Flora sia una celebrazione del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de Medici e Semiramide Appiani, nipote dell’amante di Giuliano de Medici, Simonetta Vespucci, mentre le restanti figure alluderebbero ad un’esaltazione della pace e dell’abbondanza della natura.

Sandro Botticelli, ‘Primavera’ – Foto: Angelo Zito

In merito al secondo dei due grandi dipinti di Botticelli, Nascita di Venere, o secondo la critica del Novecento Venere Anadioumene (Venere che sorge dal mare), è in realtà un titolo errato. Infatti, quello che vediamo nella tela degli Uffizi, eseguita intorno al 1484, è l’approdo della divinità, in piedi su una conchiglia, presso un’isola greca, identificabile con Cipro oppure Citera, sospinta dal soffio di due personificazioni dei venti, forse Zefiro e Aura, poste alla sua destra. Ad accoglierla con un ampio e decorato mantello di seta è una fanciulla interpretabile come una delle Ore o delle Grazie. Alle sue spalle, come già nella Primavera, gli alberi di arance, detti in latino mala medica, potrebbero suggestivamente richiamare la committenza dell’illustre famiglia fiorentina. Il repertorio a cui Sandro attinge per la realizzazione di questo tema, scelto ed apprezzato anche in virtù della frequentazione dell’amico e poeta Agnolo Poliziano e degli ambienti neoplatonici, è quello della classicità. Venere è sì nuda ma, così come rappresentata in molte sculture greco-romane, in quanto pudica si copre i seni ed il pube. Le figure dei venti, invece, sono molto simili a quelle effigiate sulla Tazza Farnese, celebre opera del Mann di Napoli, custodita però all’epoca del pittore presso la corte di Lorenzo il Magnifico.

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