Foto: Giorgio Manusakis

Defoe e Crusoe, uno scrittore dalla vita avventurosa e il suo alter ego romanzesco

Se si vuole parlare di romanzi d’avventura non si può non citare Robinson Crusoe, personaggio originale e innovativo uscito dalla penna di un autore il cui nome, Daniel Defoe, è forse meno noto di quello della sua creatura. Nella storia della letteratura inglese Defoe è ricordato nientemeno che come il padre del romanzo moderno, e non è un titolo usurpato. Del resto egli nacque a Londra nel 1660, vale a dire nel momento in cui la produzione letteraria in prosa faceva le sue prime prove e in cui un altro fondamentale evento scuoteva tutte le società europee, quella inglese in particolare: la nascita della borghesia. A voler essere pignoli, l’Inghilterra del XVII secolo fu attraversata anche da altri fenomeni epocali. Fu il secolo delle guerre di religione, dell’impiccagione di un re, della dittatura di Cromwell, della nascita e dello sviluppo dell’impero britannico, della diffusione della stampa e dei giornali. Tutti questi eventi furono insieme l’effetto e la causa della già citata nascita della borghesia, di cui Defoe fu un rappresentante esemplare. Non a caso, la sua vita si intrecciò ad ognuno dei fenomeni sopra elencati.

Era nato, tanto per cominciare, in una famiglia appartenente alla setta dei Dissenzienti, una delle tante che si formarono nell’alveo del puritanesimo, quindi avversa sia alla religione anglicana sia alla religione cattolica, le due chiese che si contesero il trono inglese tra il Seicento e il Settecento. A vent’anni Daniel abbandonò gli studi a cui lo avevano indirizzato i genitori e si diede al commercio di vini. Viaggiò per l’Europa, accumulò esperienza di vita e di lavoro, imparò lingue straniere. Tornato in patria, iniziò ad interessarsi alla vita politica, schierandosi con il duca di Monmouth contro il re cattolico Giacomo II. Ma il duca venne decapitato e Defoe fu costretto a lasciare Londra. Quando Guglielmo d’Orange riuscì a scalzare Giacomo II, lui era già tornato nella capitale inglese ma le sue attività commerciali fallirono e, per sfuggire ai creditori, dovette lasciare di nuovo la città. Da Bristol riuscì a trovare un accordo per tornare e strinse rapporti sempre più forti con i membri del Parlamento appartenenti al partito dei Whig, gli anti monarchici. Ormai quasi quarantenne, Defoe iniziò la sua attività di scrittore occupandosi di politica, di religione e di economia. Scrisse libri polemici o satirici in cui dava prova delle sue ampie conoscenze della società inglese, soprattutto dal punto di vista economico e sociale, e delle sue grandi doti di satirista. Defoe diventò famoso e venne ricevuto persino dal re Guglielmo. Ma la regina Anna, succeduta a Guglielmo e molto più conservatrice del suo predecessore, lo fece incarcerare e lo condannò alla gogna per tre giorni nelle strade di Londra. Non le era piaciuto un pamphlet dello scrittore su come la nuova sovrana intendeva trattare i Dissenzienti, la setta religiosa cristiana ma anti cattolica a cui Defoe resterà fedele fino alla fine. Ma il satirista non perse tempo e, prima che la sentenza venisse eseguita, scrisse un libello in cui metteva in discussione, con toni appunto brillantemente satirici, la gogna stessa, rivelandone gli aspetti di violento sopruso. Il tono del libretto si intuisce già dal titolo: Inno alla gogna. Quei tre giorni divennero i giorni del suo trionfo: lo scrittore attaccato e umiliato dal potere monarchico ricevette fiori anziché frutta marcia dai suoi concittadini. Per farsi liberare dalla prigione però, accettò di appoggiare il governo dei Tory, il partito della regina. Fondò persino una rivista, si chiamava Review. Non a caso viene ricordato anche come giornalista, un altro primato e un’altra espressione del suo talento e della sua modernità. La rivista usciva tre volte a settimana e quasi tutto ciò che conteneva scaturiva dalla penna del suo fondatore, una penna caustica e informata, uno stile prosaico e diretto, e una implacabile satira. Tuttavia, come contropartita per la scarcerazione, Defoe dovette iniziare a scrivere a favore del governo dei Tory. Ma il suo non fu vero tradimento: di nascosto continuò a passare informazioni ai vecchi compagni dei Whig. Quando venne scoperto a fare il doppio gioco, fu costretto a interrompere le attività per il governo.

E i romanzi? È nel 1719, alla bella età di 59 anni, che il padre del romanzo inglese pubblica la sua prima opera di narrativa: Robinson Crusoe. Ne seguirono molte altre, ma questa resta il suo capolavoro indiscusso.

Come si diceva, è un romanzo d’avventura. Del resto, dopo quattro decenni vissuti avventurosamente, cos’altro poteva partorire la mente di Defoe? La vicenda è nota: Robinson Crusoe, giovane inglese benestante, decide di andare per mare, fa naufragio e approda da solo su un’isola deserta dove vive, senza vedere nessun altro essere umano, per più di venti anni. Quando capitano su quelle sponde alcuni selvaggi, salva la vita ad uno di loro che diviene suo servo e gli impone il nome Venerdì. Alcuni anni più tardi, una nave inglese giunge in quel luogo sperduto e lo riporta in Inghilterra. Nonostante i 3/4 della storia siano ambientati su un’isola deserta e quindi contemplino un solo personaggio, questo romanzo può a ben ragione definirsi di avventura. Non solo perché prima e dopo la permanenza sull’isola a Robinson capitano varie peripezie che lo sballottano tra l’Africa, il Portogallo, il Brasile, la Spagna e la Francia, ma anche perché sull’isola il solitario protagonista deve affrontare una lunga serie di sfide. Il nocciolo del romanzo, la sua potenza, il suo fascino, la sua importanza sono lì, negli ostacoli di vario ordine che il povero naufrago affronta da solo.  

Robinson è infatti il prototipo del borghese britannico del Seicento. Ha una cultura media, un grande spirito di adattamento, un forte senso dell’iniziativa, nessun interesse erotico e, soprattutto, si affida alla religione e tratta il mondo intero come un suo possedimento. In certi tratti, agli occhi di un lettore contemporaneo, la sicumera con cui gestisce persone e territori può risultare addirittura sgradevole. Robinson considera sua l’isola, e chiunque ci capiti sopra, solo perché le onde lo hanno lasciato su quella spiaggia, e se i cosiddetti selvaggi la conoscevano e frequentavano sporadicamente prima di lui, beh pazienza, lui è inglese, quindi se ne autoproclama governatore e alla fine la concede ad altri marinai affinché la governino, preoccupandosi poi di inviare via mare non solo attrezzi da lavoro e bestiame, ma anche donne affinché gli uomini possano moltiplicarsi. Il tutto con tanto di contratto firmato da entrambe le parti. E senza tralasciare compensi e onorari. E come se non bastasse, a suggellare definitivamente gli accordi terreni interviene la volontà divina. Non c’è pretesa di laicità che tenga, è impossibile separare la storia europea dalla presenza divina, anzi dalla (presunta) partecipazione di Dio a quella storia. Tutti i popoli europei si sono sentiti autorizzati da Dio nelle loro imprese. E gli inglesi del Seicento non facevano eccezione. Robinson Crusoe si affida al suo Dio e anzi lo ringrazia per il naufragio sull’isola. Non ha dubbi che tutto, anche quella situazione apparentemente disperata, faccia parte di un disegno divino volto al suo bene, e non solo. Il suo naufragio nella terra di selvaggi senza Dio ha anche la funzione di evangelizzazione, quindi di salvezza del mondo intero. E infatti Robinson non perderà la sua occasione. E oltre a essere commerciante, marinaio, comandante, capitano d’armi, amministratore, contadino, allevatore, casaro, cacciatore, macellaio, imprenditore, sarà anche evangelizzatore e predicatore. Un perfetto strumento divino che piega la Natura ai suoi bisogni e diffonde il Verbo. Senza mai dimenticare la polemica religiosa che imperversava in tutta Europa e che vedeva Defoe schierato principalmente contro gli odiati cattolici papisti. Nonostante questo però, nessuno dei concittadini di Defoe avrebbe messo in dubbio che Dio aveva sempre un piano sia per l’individuo (la provvidenza che lo aiuta e lo salva) sia per la società, che progredisce proprio in virtù di un piano divino e per mezzo dell’uomo. A fianco di Dio, c’era la razionalità dell’uomo, la sua capacità di capire e modificare il mondo, doti ampiamente valorizzate dall’Illuminismo.

Le pagine di Robinson Crusoe scorrono veloci, il linguaggio è prosaico e svelto. Non ci sono capitoli o paragrafi e la narrazione in prima persona da parte del protagonista contribuisce a dare la sensazione di ascoltare un racconto accorato di eventi fuori dal comune. Un racconto serratissimo, quindi, senza soste, senza dialoghi, senza riflessioni che non mirino a risolvere problemi pratici, tutto concentrato sull’esterno e mai sull’interiorità dei (pochi) personaggi. Del resto Robinson non era un eroe romantico, ma un eroe illuminista, sorretto da un imperialismo già radicato e un anti cattolicesimo che gli fa concludere le sue avventure con un cambio di rotta: meglio non stabilirsi in Brasile, laggiù è infestato dai papisti, è l’Inghilterra il luogo ideale dove concludere la propria esistenza.

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