Foto: Stefania Rega

Azzurro amianto, il romanzo di Emilia Bersabea Cirillo tra drammi personali e disastri ambientali.

Ormai non stupisce più nessuno che esistano spazi di produzione totalmente al femminile. Anche una casa editrice, creata da donne, dedicata a tematiche femminili e con firme femminili. Ad esempio, Le Plurali. Già il nome è estremamente indicativo: un sostantivo solitamente maschile coniugato al femminile e al plurale, appunto. Nella collana Cantastorie, la casa editrice ha pubblicato il romanzo Azzurro amianto di Emilia Bersabea Cirillo, un’architetta di Avellino che ha unito alla professione l’attività di narratrice per la quale ha ricevuto diversi premi. Nel 2010 le è stato assegnato il Premio Prata per Una terra spaccata, nel 2016 il Premio Minerva e il Premio di Lascia per Non smetto di aver freddo. Ha inoltre meritoriamente fondato l’associazione Paroletranoileggere per la promozione della lettura.

Azzurro amianto, pubblicato nel 2022, trae ispirazione da un grave disastro ambientale che colpì l’area di Avellino negli anni Settanta quando fu impiantata una fabbrica per la scoibentazione dell’amianto da vecchi vagoni ferroviari. La modalità con cui gli operai maneggiavano il materiale, senza alcuna protezione, causò numerosi morti. Il romanzo intreccia in maniera serrata realtà e fantasia, alternandole e fondendole con notevole perizia. I personaggi naturalmente sono tutti inventati. E sono quasi tutti femminili. Aderendo perfettamente alla linea editoriale, questo romanzo scritto da una donna ci parla di donne, mettendo al centro, non a caso, uno degli aspetti più emblematici della femminilità: la cura. La protagonista, Beatrice, è madre di una bimba, dall’evocativo nome di Bianca, affetta da disturbi dello sviluppo. Il romanzo si apre sul momento più difficile della maternità di Beatrice, la quale ha appena lasciato Bianca in un istituto in Toscana, dove si era trasferita, ed è tornata ad Avellino, la sua città di origine. Beatrice non ha rivelato a nessuno l’esistenza della figlia, nemmeno alla cugina Maria Nives, sua compagna di infanzia e confidente. Il suo senso di colpa si sublima nella cura di esseri umani in difficoltà, chiunque ma non sua figlia. Attraverso un’associazione, ancora una volta femminile, Beatrice viene in contatto con Matilde e Ausilia, due donne misteriose che vivono in un vagone abbandonato di una vecchia fabbrica. Ed è così che nella storia di una maternità negata si innesta il filone della denuncia sociale e della cura del territorio.

Beatrice si unisce alla battaglia di un gruppo di cittadini che si ribella allo scempio naturalistico e alla decimazione di giovani uomini. La relazione che stabilisce da subito con le due donne, in particolare con Ausilia, di nuovo un nome evocativo, è l’inizio di un percorso catartico che si concluderà solo alla fine del romanzo.

La trama poggia, come si vede, su due pilastri affini e complementari: la malattia di Bianca da un lato – il dolore privato – e la malattia del territorio e degli operai dall’altro – il dramma collettivo. Entrambi si sviluppano lungo l’asse, come abbiamo visto, della cura. La necessità e la capacità di prendersi cura di sé e degli altri sono il materiale che sostiene l’intera impalcatura della storia che, come si diceva, si muove verso un finale catartico. Inizialmente tutti i personaggi sono intrappolati in un momento di sofferenza che li porta a decisioni fallimentari. Beatrice non riesce ad occuparsi di sua figlia e la lascia in un istituto. I cittadini di Avellino fanno fatica a comprendere la portata del disastro ambientale che li ha colpiti, ancora accecati dai vantaggi occupazionali ed economici della fabbrica che li avvelena. Come ha avuto modo di dire l’autrice in una intervista, “Bianca è l’amianto di Beatrice”. Infatti, così come Beatrice chiude gli occhi davanti al problema della figlia, si libera di qualsiasi responsabilità e cambia addirittura città, la popolazione di Avellino ignora il pericolo di quella fabbrica, assiste inerme al suo diventare sempre più minaccioso e concreto senza prestare la dovuta attenzione a sospetti, segnali e indizi.

Il giro di boa è rappresentato dal diario di uno degli operai morti, Romualdo. Le parole del giovane, che occupano anche fisicamente il centro del romanzo, fanno da detonatore e acceleratore del finale. La sua drammatica testimonianza è insieme confessione di un animo mite, dichiarazione d’amore per la giovane fidanzata, denuncia lucida e spietata di una imprenditorialità cinica e assassina. Una volta letto il diario, la forza di Beatrice cresce e la sua capacità di affrontare il dolore si radicalizza. Nello stesso momento, la lotta della cittadinanza si fa presenza e chiama all’ascolto.

La scrittura di Emilia Bersabea Cirillo ha punte di estrema eleganza. Il racconto in terza persona conferisce al tono generale del romanzo una calma rassicurante, anche nei tratti più drammatici. L’autrice non consente mai all’emotività di prenderle la mano e continua il suo viaggio narrativo alternando momenti di introspezione a descrizioni precise di luoghi e paesaggi, passando da un italiano attento a un dialetto caratterizzante.

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