L’infinito viaggiare di Claudio Magris

Claudio Magris è come un fiume carsico nella cultura italiana. Scorre invisibile e inascoltato nelle pieghe riposte della letteratura e della saggistica. E a tratti si palesa. Come quando ha vinto il Premio Bagutta per il romanzo Danubio, nel 1986, o il Premio Strega con Microcosmi, nel 1997. Nel corso della sua lunga carriera ha ottenuto tantissimi riconoscimenti, in Italia e all’estero. Molti sono poco noti, in teoria poco prestigiosi. Eppure, tutti insieme compongono un mosaico che testimonia in maniera lampante il valore e il ruolo svolto da questo scrittore schivo e appartato.

Trieste è per definizione una città di confine. Tutta la sua storia è dominata da fasi alterne di appartenenza a imperi o Stati diversi, a contese territoriali, a lotte linguistiche e maggioranze etniche. Claudio Magris vi nacque nel 1939, e crebbe in anni in cui la città e tutto il territorio circostante erano contesi tra la neonata repubblica italiana e la repubblica socialista jugoslava. Si laureò all’Università di Torino e già la sua tesi mostrava i segni del grande saggista che sarebbe stato. Il suo primo saggio, pubblicato nel 1963 e intitolato Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, infatti, è la rielaborazione proprio della sua tesi di laurea.

Nei decenni successivi, Magris ha affiancato alla sua professione di docente di letteratura tedesca all’Università di Trieste una produzione saggistica di grande valore, ampia ma con un centro di interesse molto ben riconoscibile: la letteratura e la cultura mitteleuropea, con particolare attenzione al contributo di autori ebraici.

Nella sua bibliografia sono annoverati anche dei romanzi. Ma a cercare le tracce di una narrazione tradizionale si perderebbe tempo. Persino nel già citato Microcosmi il lettore non troverà una trama che corre sulle gambe di personaggi e tra i canali di un tempo storico. La cifra stilistica più evidente di Magris è la sua parcellizzazione del racconto in microracconti, la fluidità estrema dell’azione. La sua scrittura si appoggia su dettagli ed eventi minuscoli. Anche quando scrive di viaggi. Nemmeno in questo caso, infatti, il suo stile abbraccia la descrizione ampia e suggestiva di luoghi o persone, né lo sviluppo di un racconto temporale. L’infinito viaggiare, un saggio pubblicato nel 2005, ne è la prova lampante. La descrizione dei viaggi dell’autore, tra Spagna, Germania, Cina e tante altre più o meno sperdute località, si appoggia non sul racconto macroscopico dei luoghi visitati ma sulle esperienze minute avvenute in quei luoghi, sugli incontri con personaggi notevolissimi nella loro limitatissima notorietà.

Il saggio è aperto da una prefazione lucida e indispensabile che aiuta a riflettere sulle possibili interpretazioni del viaggio, su come abbia percorso l’intera storia della cultura occidentale, a partire da Omero e la sua mitica Odissea. Come si diceva, L’infinito viaggiare si compone di una serie di resoconti di viaggi che l’autore intraprese tra il 1981 e il 2004. E come si diceva non si tratta di resoconti descrittivi nel senso tradizionale. Non si troveranno luoghi illustrati nelle loro peculiarità storiche o paesaggistiche. Si troveranno piuttosto le riflessioni personali stimolate da quei luoghi, spesso considerazioni di ordine eminentemente filosofico o letterario. Le pagine scorrono lungo un crinale composto da minuti dettagli, da personaggi semi sconosciuti, da luoghi vaghi. Ciò che l’autore ci vuole trasmettere non è il viaggio in sé, bensì il senso del viaggiare. “Un viaggio senza un percorso e senza mete obbligate – perché, dopo tutto, in Bisiacaria non c’è quasi niente da vedere – è una scuola di percezione.” Il viaggio per Magris è una “scuola di percezione” che prevede la dismissione delle più consolidate abitudini quotidiane dello stile di vita di un europeo. Vale a dire, la fretta, i preconcetti, le abitudini. Non solo. Nella nostra epoca il viaggio è essenzialmente parte dell’industria turistica, quindi è strizzato in una scaletta serrata dominata da tempi e da tappe ineludibili. Prevede la “visita” a luoghi sconosciuti ma già visti allo stesso tempo. Nel profluvio inarrestabile di immagini in cui siamo immersi l’intero pianeta ci passa sotto gli occhi senza posa. Raramente siamo spiazzati da un senso di totale novità, dalla meraviglia dell’ignoto che d’improvviso si materializza sotto i nostri occhi. Ma nello stesso tempo, vedere o rivedere un luogo non significa conoscerlo. Anche quando ci affidiamo a una guida ci lasciamo percorrere da dati che ci abbandoneranno un minuto più tardi. Quello che manca, nell’ottica di Magris, è la capacità di lasciarci guidare dai luoghi. “Un viaggio senza un percorso e senza mete obbligate” è proprio ciò che ci manca. Seguire le tappe che scaturiscono di volta in volta dalla relazione tra l’osservatore e il luogo che sta osservando, le suggestioni che si innescano quando ci liberiamo dei veli che filtrano la nostra visione del mondo. Che senso ha visitare una città senza perdersi dentro le sue strade? Quale utilità può avere osservare i dettagli degli affreschi di un palazzo senza chiedersi come potesse essere la vita che vi pulsava? In questo senso, le pagine di Magris possono davvero segnare un punto. La sua proposta di viaggio ci sprona a guardare e prenderci il tempo per sentire i luoghi. Ci esorta a non fare piani, programmi o scalette, ma ad andare, a cambiare direzione, fermarsi ed accelerare in base ai tempi individuali. E a provare a conoscere i luoghi attraverso le persone che li vivono. Quanto ci possono dire gli essere umani che di un luogo sono abitanti e custodi nessuna guida potrà mai dirci. Sui contenuti di questo libro si potrebbe parlare per pagine e pagine, sui suoi rimandi letterari e filosofici, sulle riflessioni personali e storiche, ma non si farebbe un buon servizio al lettore. Perché Claudio Magris regala anche il piacere estetico della lettura. Il suo stile pacato ed elegante, arricchito da un’aggettivazione marcata e puntualissima, disteso su un periodare lungo e sinuoso, è un altro dei grandi meriti di questo autore. I saggi di Magris hanno l’erudizione del genere e la bellezza di un romanzo ben scritto. Un altro dei motivi per cui vale la pena leggerlo e per cui questo triestino colto e riservato rappresenta un caso isolato nella letteratura italiana contemporanea. Una minoranza da salvaguardare, per utilizzare una terminologia molto vicina alla sua storia. Il miglior servizio che si può fornire al lettore è il consiglio di aprire le pagine di questo libro e iniziare il viaggio.

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