L’ingresso di Castel Sant’Elmo di notte – Foto: Giorgio Manusakis

Un museo “in progress”: dal Futurismo alla “Sedia delle torture”

a cura di Lucia Fontanarosa

Il Museo del Novecento è ubicato all’interno di Castel Sant’Elmo, nella zona collinare di Napoli. Il Castello, denominato un tempo Paturcium, sorge nel luogo dove vi era, a partire dal X secolo, una chiesa dedicata a Sant’Erasmo (da cui Eramo, Ermo e poi Elmo). L’edificio (primo castello per estensione della città), in parte ricavato dal tufo giallo napoletano, trae origine da una torre d’osservazione normanna chiamata Belforte. Per la sua importanza strategica è sempre stato un possedimento molto ambito. Dalla sua posizione (250 m s.l.m.) si può osservare infatti la città, il golfo e le strade che, dalle alture circostanti, conducono ad essa.

Castel Sant’Elmo, la Piazza d’armi con l’ingresso del Museo del Novecento – Foto: Giorgio Manusakis

Le prime notizie relative al castello risalgono al 1275, descrivendolo come una residenza angioina, la quale nel 1329, ad opera di Roberto D’Angiò, vide l’ampliamento del Palatium, eseguito da Tino di Camaino, allora impegnato nella vicina Certosa di San Martino. Il castello divenne poi un obiettivo militare quando Francia e Spagna si contesero il Regno di Napoli. Nel 1537 Don Pedro de Toledo, su sollecitazione dell’Imperatore Carlo V, lo fece ricostruire. Nel 1587 un fulmine, caduto nella polveriera, distrusse buona parte della Fortezza, per cui nel 1599 iniziarono i lavori di ripristino, affidati all’architetto Domenico Fontana, che terminarono nel 1610. In seguito divenne un carcere che, nel periodo della Rivoluzione Francese, imprigionò filogiacobini come Mario Pagano, Giuliano Colonna, Gennaro Serra di Cassano, Ettore Carafa.

Durante i moti del 1799 fu occupato dai repubblicani che poi, alla caduta della Repubblica, vennero qui rinchiusi. Durante il Risorgimento ospitò Pietro Colletta, Mariano d’Ayala, Carlo Poerio, Silvio Spaventa. Fino al 1952 fu adibito a carcere militare, passando poi al Demanio militare, sino al 1976, anno in cui ha avuto inizio un imponente intervento di restauro ad opera del Provveditorato alle Opere Pubbliche della Campania, che ha reso visibile gli antichi percorsi, i camminamenti di ronda e gli ambienti sotterranei. Oggi il Castello è sede degli Uffici della Direzione del Polo museale della Campania e del Museo del Novecento, che si affaccia sulla Piazza d’armi. Questo, aperto dal 2010 per volontà dell’allora Soprintendente Nicola Spinosa e dell’ex direttrice Angela Tecce, rappresenta un vero e proprio museo “in progress”. Al suo interno raccoglie collezioni di opere di proprietà pubblica, donazioni degli artisti e prestiti in comodato da parte dei collezionisti.

Le sezioni e gli artisti rappresentati nel museo

Oltre centosettanta opere, realizzate da novanta artisti napoletani, si susseguono attraverso un percorso cronologico suddiviso per sezioni: dalla Secessione del ‘23 (1909) e dal primo Futurismo (1910/1914) al movimento dei Circumvisionisti e del secondo Futurismo (anni 20/30); dalle varie testimonianze su quanto si produsse tra le due guerre alle esperienze succedutesi nel secondo dopoguerra (1948/58); dal gruppo “Sud” al cosiddetto Neorealismo; dal gruppo del Mac al gruppo del 1958. Seguono le sezioni riservate agli anni ‘70, fino all’ultima dov’è documentata l’attività di artisti degli anni ‘80. Notevole è anche una raccolta di ceramiche, legata al ‘900, acquisite, attraverso comodati, da collezionisti privati, per un periodo che va dal 1920 al 1950 circa. Tale selezione, oltre ai nomi più noti, dà anche spazio a personalità artistiche meno evidenti nel panorama nazionale, ma altrettanto apprezzabili, tra le quali ricordiamo Aita Zini, Saverio Gatto, Edoardo Giordano e Giuseppe Macedonio. Sono presenti, inoltre, attività collettive della ceramica di Posillipo e le manifatture della ceramica STELLA. Tra gli autori invece delle opere esposte troviamo: Francesco Galante, Lello Lopez, Tommaso Marinetti, Vincenzo Gemito, Emilio Notte, Mimmo Paladino, Maurizio Valenzi.

Lello Lopez, ‘Scala’ – Foto: Lucia Fontanarosa

Come accennato in precedenza, spiccano esposizioni di artisti della corrente futurista, fondata a Napoli da Filippo Tommaso Marinetti (22 dicembre 1876 -2 dicembre 1944). Questi, dopo i primi anni trascorsi in Africa, proseguì gli studi prima a Milano, poi a Parigi. In seguito, laureatosi in legge all’Università di Genova, si avviò alla carriera di avvocato ma, dopo la morte prematura della madre e del fratello maggiore, l’abbandonò, dedicandosi alla letteratura.

Francesco Galante, ‘La matassa’ – Foto: Lucia Fontanarosa

Siamo agli inizi del ‘900, secolo della velocità, nel quale si sta affermando un mondo che pulsa, romba, produce con nuove macchine, sviluppando sempre più l’industria, attraverso un uso crescente dell’energia elettrica. La poesia, così, non vuole ignorare tutto questo, per non rimanere chiusa in una dimensione lontana dalla vita reale. Marinetti, assumendo come maestri Mallarmé, noto per le sue analogie, e Rimbaud, che utilizza una linea senza fili, priva cioè di punteggiatura e nessi sintattici, a Napoli darà luogo ad un rivoluzionario movimento artistico e letterario: il Futurismo, appunto, caratterizzato dal rifiuto dei valori tradizionali del passato e rivolto al futuro ed al progresso tecnologico. Si esalta la velocità, il dinamismo, la forza materiale, la violenza, la guerra, considerata quest’ultima come sola “igiene del mondo”. Al culto dei sentimenti e dell’analisi interiore, alla meditazione e al silenzio, si contrappongono lo slancio vitale, aggressivo e prepotente, il rumore, la luce abbagliante.
Ecco un estratto del Primo manifesto del Futurismo, comparso a Napoli il 14 febbraio 1909:”Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano”

Un approfondimento sulla Sedia delle torture

Fra le numerose opere esposte nel Museo, attira la nostra attenzione un manufatto denominato Sedia delle torture di Mario Persico (1930 – 2022).

Persico, importante esponente delle neoavanguardie del secondo dopoguerra, ha sempre coniugato la sua esperienza pittorica e plastica a un parallelo approfondimento ideologico, politico e concettuale. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Napoli con il maestro Emilio Notte, firmerà, nel 1955, il celebre Manifesto dell’Arte Nucleare, lanciato da Enrico Baj. Una scelta di campo netta, in linea con l’evoluzione postbellica delle ricerche neodada e neosurrealiste, che tre anni più tardi lo vedranno fondare il Gruppo 58, con Guido Biasi, Lucio Del Pezzo, Sergio Fergola e Luca Luigi Castellano.

Mario Persico, ‘Sedia delle torture’ – Foto: Lucia Fontanarosa

Arte metamorfica, la sua, realizzata con assemblaggi, uso di materiali diversi a partire dal legno, colori vivaci e allusioni biomeccaniche, accompagnata da un’idea della praticabilità da parte del fruitore non più semplice osservatore. Un percorso che, nel 1971, trova risposta nelle prime Sedie dell’isteria, di cui erano già stati pubblicati disegni ed appunti, e successivamente nella costruzione di oggetti isterici d’uso quotidiano, nei Teatrini e nella progettazione di Sedie della tortura. A questo lavoro si è sempre unita anche un’intensa attività teorica, come dimostra l’esperienza di redattore della rivista Documento Sud e la successiva collaborazione presso Linea Sud, testata diretta e fondata da Luca Luigi Castellano nel 1963.

Una visione teorico-pratica, figlia delle Avanguardie storiche del primo ‘900 che nella generazione di Persico ritrovano nuovo slancio ed impulso, creando legami multidisciplinari, come ad esempio quelli col Gruppo ‘63 e in particolare con Edoardo Sanguineti. Le parole di cordoglio del Museo Madre per la scomparsa di Mario Persico esprimeranno tutto il valore di questo personaggio: “Apprendiamo con dolore della scomparsa di Mario Persico, tra le figure fondamentali del dibattito culturale nel Meridione. Persico ha animato col suo spirito irriverente l’avanguardia artistica a Napoli”.

Tornando all’originale Sedia delle torture, va sottolineato che essa scaturisce dalla riflessione dell’artista sugli strumenti di tortura creati nei secoli dall’uomo per l’uomo. Insieme a “Le sedie per l’isteria”, l’opera rappresenta un’amara riflessione sulla condizione umana che genera i suoi strumenti di crudeltà, oltre che uno studio della meccanica del Quattrocento. Le sedie “inquisitorie” appaiono agli inizi del ‘500 e, nel corso degli anni, ne sono state costruite diverse varianti, tutte “fornite” di puntali in ferro sulla seduta, di braccioli, dello schienale e, talvolta, di assi destinate all’appoggio di gambe e piedi. Esse non derivano però il proprio nome dal presunto utilizzo durante il periodo dell’Inquisizione, ma dal fatto che venivano adoperate durante interrogatori non esclusivamente di carattere religioso. Certamente adottate anche dall’Inquisizione, avevano lo scopo di estorcere una confessione, evidentemente assai poco spontanea, nella fase istruttoria e persino durante quella dibattimentale. Sino alla metà del XIX secolo vennero usate in Germania e Francia, mentre in Spagna ed Italia la loro costruzione ed il conseguenziale impiego cessarono verso la fine del ‘700.

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