Foto: Stefania Rega
Agnese Pini racconta l’eccidio di San Terenzo Monti del 1944
Potrebbe forse sembrare facile assegnare un libro ad un genere: romanzo giallo, biografico, storico, apocalittico e post apocalittico, d’avventura, d’appendice o di formazione. Ognuno di questi generi ha i suoi tratti, come i fili colorati di un tessuto, e riconoscerli in una storia non è difficile. Ma gli scrittori, soprattutto certi scrittori, vale a dire quelli che possiedono al contempo un mondo narrativo ricco e una grande abilità tecnica, riescono a intrecciare in una sola opera aspetti romanzeschi e storici, di denuncia sociale e psicologici, horror e apocalittici, e a nascondere i nodi che tengono insieme i diversi fili dentro una piega del racconto, o sotto una doppia cucitura, in modo che la lettura scivoli morbida come seta.
Leggendo Un autunno d’agosto si percepisce la sensazione di aver avuto tra le mani ora un filo ora l’altro, senza aver mai colto il momento dello scambio. Questo libro ci racconta la strage nazifascista del 1944 a San Terenzo Monti, minuscolo borgo contadino in provincia di Massa Carrara. È stato pubblicato ad aprile dall’editore Chiarelettere e lo firma Agnese Pini, giornalista carrarese attualmente direttrice di ben quattro testate: la Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino e Quotidiano Nazionale. L’argomento non è scelto a caso. La bisnonna di Agnese Pini si chiamava Palmira e viveva a San Terenzo Monti, proprio nel momento della strage. Era l’ultimo agosto di guerra, un gruppo di partigiani aveva organizzato un agguato contro un plotone di SS uccidendo 16 soldati. Come di consueto, la rappresaglia tedesca fu spietata. Dieci italiani per ogni tedesco ucciso. Il rastrellamento nel piccolo paese procurò ovviamente un bottino composto prevalentemente da donne, bambini ed anziani. Tra cui, appunto, Palmira. Tutti uccisi.
Come lei stessa ci racconta, nonostante sia nata parecchi anni dopo la fine della guerra, Agnese Pini ha sentito raccontare storie intrecciate a questo episodio fin da quando ha memoria, una specie di eredità narrativa familiare. La recente strage di Bucha in Ucraina ha agito da detonatore su un deposito di esplosivo accumulato per una vita intera: dopo aver visto i cadaveri di civili abbandonati per le strade della cittadina ucraina, Agnese Pini ha voluto mettere su carta la strage di San Terenzo, per lasciare una testimonianza storica e personale insieme.
A proposito dei generi narrativi, sulla copertina si legge: L’eccidio nazifascista che ha colpito la mia famiglia. Una storia d’amore mentre la guerra torna a far paura. Non si poteva racchiudere la densità di questo libro in modo più efficace. L’eccidio di Bucha fa capolino come un demone sinistro e insopprimibile gettando un ponte tra passato e presente, mentre l’amore si manifesta nel suo senso più ampio, a indicare la capacità degli esseri umani di scoprirsi solidali gli uni con gli altri proprio nel momento di massima violenza.
Ma questo libro è innanzitutto il racconto di un evento storico, ricostruito fin nei minimi dettagli con autentico rigore giornalistico. L’autrice ha raccolto materiali vasti ed eterogeni e li ha restituiti in forma chiara, con un tono freddo come una lama, l’unico possibile quando si tratta di raccontare eventi di così estrema drammaticità, facendoci vedere, come in un film, la strage del 19 agosto e gli eventi che la precedettero. L’assalto dei partigiani al plotone di SS, quando la voce narrante ci porta proprio accanto ai giovani combattenti mentre aspettano l’ordine di attaccare, i giorni seguenti in cui la popolazione atterrita aspettava la vendetta tedesca e infine la preparazione della rappresaglia da parte dei generali del Reich. In una scena agghiacciante, uomini in divisa, armati fino ai denti, organizzano meticolosamente la trappola in cui una popolazione di donne, bambini e anziani, stremati da 4 anni guerra, impegnati nella quotidiana fatica di strappare un po’ di cibo dalla terra e schivare le pallottole, fatalmente cadrà.
Accanto agli eventi storici, si muovono personaggi più vicini all’autrice, come la bisnonna Palmira, che abitava proprio accanto all’ansa del fiume in cui i partigiani sorpresero i tedeschi. Ma anche Roberto Oligeri, il figlio di un uomo che nella strage perse la prima moglie e altri cinque figli. È con lui che Agnese Pini ripercorre i luoghi degli eventi, il paese, il fiume, i campi, facendo del paesaggio quasi un altro personaggio tanto la sua descrizione è vivida, linguisticamente ricca, con punte di vero lirismo.
Tuttavia, per giungere al vero cuore di questo libro che racchiude tanti libri è necessario alzare lo sguardo. Tutti i fili che compongono la trama convergono su un punto, vale a dire la riflessione su temi quanto mai cruciali e attuali: la guerra e il ruolo della giustizia.
Le stragi perpetrate su civili inermi, donne e bambini in massima parte, si nascondono nelle pieghe di ogni guerra, nessuna esclusa. Basta guardare oltre la linea del fronte, oltre gli spostamenti degli eserciti e le dichiarazioni degli ufficiali medagliati. Basta sporgersi oltre la retorica, oltre gli interessi nazionali, oltre la potenza delle armi. È allora che ci si trova inevitabilmente davanti all’orrore. Vale a dire davanti alla crudeltà fine a se stessa e ad una stupefacente disparità delle forze in campo: un plotone di soldati con mitragliatrici e bombe a mano contro un gruppo di donne, bambini ed anziani disarmati. È successo a San Terenzo, è successo a Bucha, è successo nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila e nel villaggio vietnamita di My Lai. Stragi senza alcun ritorno nella tragica economia di nessuna guerra. Che utilità potrebbe avere l’uccisione di 160 o di 1600 donne e bambini? A quale vantaggio militare o logistico dovrebbe portare? L’orrore sta proprio nella gratuità dell’atto che fa del desiderio di morte l’unico vero movente.
Eppure l’orrore appartiene a tutte le guerre, è stato perpetrato da tutti gli eserciti, non esistono buoni e cattivi in questo senso. È proprio la guerra che dà agli uomini l’opportunità di esprimere il lato più distruttivo della propria natura. Nessuno può spiegarlo meglio di Freud: “Laddove viene a mancare il biasimo da parte della collettività, cessa la compressione degli istinti malvagi e gli uomini si abbandonano ad atti di crudeltà, di perfidia, di tradimento e di brutalità che, a giudicare solo dal loro livello di civilizzazione, si sarebbero creduti impossibili”.
La violenza dunque, ci dice Freud, fa parte della natura umana, noi possiamo controllarla ma non eliminarla. Leggere Un autunno d’agosto significa vedere dove può arrivare la crudeltà umana e capire quanto è necessario, una volta che ci è scoppiata tra le mani, affrontarla e darle un volto. “Per molti anni, a San Terenzo, il Male aveva preso la forma di ombre e voci e suggestioni macabre nella memoria del paese – la collana dei proiettili, il pugnale negli stivali, la mitraglia, il teschio sull’elmetto, il Monco, come tutti chiamavano l’ufficiale senza braccio che comandava le SS – ma non aveva identità reali contro cui indirizzare la rabbia, la frustrazione e l’orrore. […] Per molti anni era stato dunque il Male senza nome a tormentare gli incubi dei sopravvissuti […] impedendo loro di trovare una comprensione che fosse più concreta e insieme accettabile, una comprensione che solo il senso della giustizia terrena può dare su fatti così squallidamente umani”.
La giustizia terrena è l’unico modo per comprendere e controllare il male. Non è vendetta, non è rivalsa. È comprensione.
Non è stata fatta giustizia a San Terenzo Monti. I sopravvissuti sono stati lasciati soli a gestire l’angoscia. E così ad un certo punto hanno identificato il Male non con i nazisti che avevano consapevolmente sparato su civili inermi, ma con i partigiani. È molto toccante la storia di uno dei ragazzi che prese parte all’attacco contri i tedeschi, Memo. Ritenuto responsabile dai sopravvissuti perché aveva partecipato all’agguato all’origine della rappresaglia tedesca, e quindi isolato, si presentava ogni anno alle celebrazioni per la strage restandosene in disparte, con la bandiera sulla spalla, fino alla fine. Solo la morte gli ha impedito di continuare a commemorare i morti di San Terenzo. Fare giustizia, ci dice Agnese Pini, significa dare a ciascuno le proprie responsabilità. L’Italia Repubblicana ha fatto davvero poco in questo senso. Quando finalmente si è arrivati a un processo e a una condanna, grazie all’impegno zelante di un procuratore generale, era troppo tardi. I pochi imputati ancora in vita erano troppo avanti con gli anni, e il tempo passato dai crimini troppo lungo. Nessuno ha mai trascorso un solo giorno in carcere. Con tono piuttosto amaro Un autunno d’agosto si chiude così: “Questo è un libro sugli ultimi, non sugli eroi, non sui carnefici, non sui governi”.