Matteo Garrone in questo film racconta il viaggio di Seydou e Moussa, due ragazzi adolescenti che partono da Dakar, in Senegal, per raggiungere l’Europa.

Io capitano, l’ultimo film di Matteo Garrone, racconta la storia di tantissimi uomini e donne migranti ma, più di tutto, è ispirato alle storie di Kouassi Pli Adama Mamadoum, arrivato 15 anni fa in Italia dalla Costa d’Avorio dopo aver trascorso un lungo periodo di detenzione e subito torture in un campo libico, e di Fofana Amara che, ancora minorenne, condusse in salvo centinaia di persone su di una barca partita dalla Libia e, una volta giunto in Italia, fu arrestato e condannato poiché ritenuto dalle autorità italiane uno scafista.

La storia inizia a Dakar, dove vivono i due protagonisti: Seydou e Moussa, due cugini sedicenni che decidono in gran segreto di partire per raggiungere la costa nord-africana ed imbarcarsi per l’Europa. A differenza di tutti i preconcetti e i luoghi comuni che sono ben radicati quando si affronta questo tipo di tematiche, Matteo Garrone racconta una quotidianità ben diversa dallo stereotipo dell’Africa. Come tanti ragazzi Seydou e Moussa decidono di partire non a causa della guerra e della fame, ma perché subiscono la fascinazione dell’ignoto e della globalizzazione. Sui loro telefoni, scorrendo su Instagram, vedono un’immagine di un’Europa patinata d’oro che li aspetta. Il loro sogno, come per i tanti in giro per il mondo, è quello di diventare rapper famosi e, come ripetono spesso i due protagonisti, “di firmare gli autografi ai bianchi”. I due, senza avvertire le famiglie, contrarie a questa loro aspirazione, decidono di partire nel bel mezzo della notte affrontando un viaggio che poi si rivelerà l’inferno in terra. Dal deserto ai campi libici, dalle torture al viaggio in mare, i due ragazzi si trovano davanti tutto ciò che i loro genitori avevano previsto e per cui erano fermamente contrari alla loro partenza.

La differenza rispetto agli altri film che affrontano queste tematiche, come Fuocoammare di Rosi o Terraferma di Crialese, è che l’impianto narrativo è totalmente ribaltato. Qui il focus non è la storia in sé, ma è la storia vista dal punto di vista di uno dei due protagonisti, Seydou, che durante tutto il viaggio, sogna, ha paura, ha speranza, è inorridito. Tutto ciò che lo spettatore vede è filtrato attraverso lo sguardo di Seydou. Ciò ci regala dei momenti onirici all’interno del film in cui il protagonista immagina sua madre, lasciata a Dakar, o di portare in salvo una donna che lo stesso Seydou ha visto morire durante il cammino nel deserto. Anche la scelta di non doppiare il film appare saggia in questo contesto, perché il linguaggio si adatta perfettamente al flusso dei pensieri del protagonista.

Io capitano è un film vero, che racconta una realtà spesso non indagata, che si perde nei numeri e nelle statistiche. Troppo spesso, anche a causa della narrazione che viene fatta di questo fenomeno, riduciamo le storie delle donne e degli uomini migranti a numeri: numero dei morti, numero degli sbarchi, numero dei minori non accompagnati. Dietro queste statistiche, dietro questi numeri, ci sono delle vite, dei sogni e delle speranze e questo Matteo Garrone lo racconta bene. Gran parte della critica ha parlato di ‘Odissea’ in riferimento al viaggio dei protagonisti. Tuttavia non mi sento di condividere quest’opinione per il carattere della storia che viene raccontata rispetto, invece, al racconto epico. Ulisse (o Odisseo, che dir si voglia) dopo una lunga guerra vaga attraverso il Mediterraneo nella speranza di ritrovare la strada di casa. Qui invece è l’esatto opposto. Seydou e Moussa affrontano il viaggio perché sono ragazzi di sedici anni che, guardandosi intorno, decidono di volere di più dalla vita. La loro è una storia attuale, veritiera e che probabilmente accomuna gran parte delle storie di migrazione.

Per tutti questi motivi Io capitano, dopo aver vinto il Leone d’Argento a Venezia, è stato scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar.

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