Pecore – Foto: Menandros Manousakis

Avere maggiore disponibilità di cibo è un bene, ma inquina e tanto. Vediamo perché e cosa si può fare per inquinare meno.

Nel corso della storia umana ci sono state diverse ‘Rivoluzioni verdi’. Quella della prima metà del Novecento, basata su piante più produttive, insetticidi, fertilizzanti e macchine agricole portò ad un considerevole aumento della produzione. I risultati sono ancora oggi evidenti: sui circa sette miliardi di persone che abitano il pianeta, sei non soffrono la fame; solo 50 anni fa la percentuale era quasi l’opposto (Zeffiro Ciuffoletti – ‘Dalla rivoluzione agricola alla “rivoluzione verde” e il caso italiano’). Tutto bello allora? Non proprio. Evitata l’emergenza fame oggi vediamo l’altro lato della medaglia, quello decisamente brutto: gli alti costi ambientali. L’aumento di produzione ha portato anche inquinamento ambientale. Le emissioni di gas serra legate al cibo sono dovute principalmente alla deforestazione, alle coltivazioni, alla produzione di fertilizzanti e al trasporto, ma c’è dell’altro.

Secondo l’IPCC (‘Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico’ creato dall’ONU), per evitare una catastrofe ambientale bisogna mantenere la temperatura in modo che, al massimo, non arrivi a 1,5 gradi in più rispetto a quella di metà del XIX secolo, ma a questo ritmo ci arriveremo nel 2040. L’attuale produzione di cibo è responsabile del 30% dell’emissione del gas serra e, secondo alcuni calcoli, nel 2050 potrebbe raddoppiare.

Non possiamo tornare ad inizio XX secolo, quando l’agricoltura era naturale e 6 persone su 10 lavoravano la terra (oggi sono 1 su 50), ma bastavano appena al fabbisogno: infatti il consumo medio di carne era appena di 30 grammi la settimana e quello di frutta e verdura poco più della metà di oggi, inoltre l’aspettativa di vita era di circa 42 anni. Ciò che possiamo fare, quindi, è ottimizzare le risorse ed è possibile grazie alla tecnologia e al progresso.

Una soluzione che si sta provando ad applicare è la cosiddetta ‘Agricoltura di precisione’ che, grazie ad un monitoraggio tecnologico, ottimizza la gestione delle coltivazioni. Usando rilievi satellitari, droni, centraline meteo e altre tecnologie di verifica e controllo, si riesce a gestire meglio le risorse utilizzando il giusto quantitativo di acqua, fertilizzanti ecc. Quanto di più avanzato esista oggi come produzione a basso impatto ambientale è stato raggiunto dall’ENEA col progetto di mini-fattorie verticali. Si tratta di colture idroponiche (senza terra), che hanno una superficie da 1 a 15 mq, disposte su più livelli; su di esse vengono fatte crescere delle microverdure in grado di accumulare grandi quantità di sostanze minerali e fitonutrienti. Ciò consente di risparmiare grandi quantità di acqua (si consideri che il 70% dell’acqua dolce oggi viene usata per l’agricoltura e rimessa in circolo inquinata) e fertilizzanti; inoltre, avendo un ciclo di crescita di soli 10/20 giorni, consentono frequenti raccolti. Le piante possono essere coltivate sia all’esterno che in serra o indoor, sia su suolo che fuori suolo. Attualmente il costo di produzione è ancora troppo elevato e quindi i progetti e il loro uso sono limitati al supporto alla dieta di personale militare e a studi con l’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) per integrare la dieta degli astronauti e simulare una missione su Marte.

L’ultima frontiera è la modifica genetica, ovvero i ‘famosi’ OGM (Organismi Geneticamente Modificati) che grazie a tali mutamenti sono più resistenti a malattie, insetti ma anche alla siccità e, quindi, consentono un aumento della produzione; attualmente, però, sono poco graditi ai consumatori e dunque limitati a poche varietà di colture.

Pomodoro – Foto: Menandros Manousakis

Va detto che l’allevamento in particolare incide molto sull’ambiente. Secondo la FAO il 14,5% delle emissioni di gas serra è dovuto agli allevamenti; questo significa che sono causa della metà delle emissioni di tutta l’industria alimentare. Di questo 14,5%, il 6% è dovuto alla lavorazione e al trasporto, il 10% al letame e alla sua gestione, il 39% alla fermentazione dei ruminanti (ovvero all’emissione di metano dovuta alla digestione) e il 45% alla produzione e lavorazione dei mangimi. Dunque se mangiassimo meno carne molti campi sarebbero convertiti alla produzione di cibo e riforestati; ciò non significa che bisogna eliminare il consumo di carne, basterebbe ridurlo. Ma non è solo questo il problema. Infatti del cibo che produciamo ogni anno il 14% viene perso dal produttore al venditore tra raccolta, immagazzinamento e trasporto e il 17% viene sprecato. Nel 2019 sono andate perdute 931 tonnellate di cibo, il 13% dai venditori, il 26% dalla ristorazione e il 61% nelle nostre case, ovvero da noi (fonte: Superquark+). In Italia ogni anno buttiamo dai 27 ai 30 kg di cibo a persona, sia perché andato a male, sia perché non ci piace. Se pensiamo che circa il 7% di emissioni globali di gas serra è legato a cibo che nessuno mangerà, e che pressappoco il 30% dei terreni agricoli è occupato a produrre cibo che non arriverà mai sulle tavole, forse un po’ a tutti verrà voglia di fare un minimo di dieta.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *