Il panificio visto dall’alto – Foto da comunicato stampa
a cura di Lucia Fontanarosa
Nello scorso mese di dicembre gli scavi, ancora in corso, presso l’insula X della Regio IX di Pompei, hanno riportato alla luce un’altra straordinaria testimonianza, costituita da un panificio-prigione. La struttura, congiuntamente ad una mostra allestita presso la Palestra Grande del sito archeologico, offre un’interessante rappresentazione della schiavitù nel mondo romano.
L’insula X della Regio IX presenta la forma allungata tipica degli isolati costruiti all’interno della città di Pompei e faceva parte di un progetto di ampio respiro, che vide la realizzazione di un piano edilizio iniziato tra il IV ed il III secolo a.C. In questa zona furono edificate nuove strutture, fra le quali un panificio che, al momento dell’eruzione del 79 d.C., occupava il lato occidentale del complesso abitativo.
Il panificio era composto da tre vani ed una stalla. In particolare vi erano un laboratorio per la produzione del pane, con il forno per la cottura del pane; varie vasche, una zona della macinazione con annessa latrina ed infine un ambiente utilizzato come stalla per gli animali, che fungeva anche da spazio per lo stoccaggio delle materie prime. Il forno, che occupava gran parte della zona settentrionale del vano, era di un tipo con avancorpo e tiraggio del fumo.
Il lavoro nel panificio
La pratica della macinazione del grano era effettuata da uno schiavo e da un asino e proprio agli schiavi, uomini e donne che componevano la metà della popolazione che abitava a Pompei, messi sempre nell’ombra, è dedicata la mostra inaugurata il 15 dicembre 2023 presso la Palestra Grande e denominata “L’altra Pompei”.
Attraverso sette sezioni (circa trecento reperti e tre installazioni multimediali), il percorso espositivo permette di seguire idealmente il corso della vita della popolazione comune, schiavi, liberti e lavoratori di varie categorie, dalla nascita fino alla morte, indagandone l’attività quotidiana, ma anche il rapporto con il mondo esterno e con l’aldilà.
Esaminando la struttura del panificio si nota che esso è privo di porte e di comunicazione con l’esterno; un’unica uscita conduce sull’atrio.
Anche la stalla presenta una sola uscita di accesso alla strada, proprio come accade per gli altri trentasei panifici presenti a Pompei.
Il forno – Foto da comunicato stampa
All’interno dell’ambiente dedicato alla produzione del pane, l’assenza di spazi vitali aveva lo scopo di limitare la libertà di movimento dei lavoratori che svolgevano, così, le proprie mansioni in uno stato servile, nel quale il proprietario cercava di limitare il più possibile i loro movimenti, nonché i dispendi di energia fisica. Persino le finestre, all’interno dell’ambiente, erano chiuse con grate di ferro, proprio per evitare che gli schiavi, in preda allo sfinimento, scappassero da quest’autentica condizione di prigionia. Quest’ultima realtà caratterizzava anche la vita degli animali nelle stalle dove, in genere, erano presenti per lo più sei, sette asini. Essi, nel buio totale, svolgevano un lavoro massacrante, reso bene in un brano delle Metamorfosi di Apuleio, dal titolo Asinus aureus (l’asino d’oro), in cui si racconta l’esperienza di un certo curiosus Lucius, trasformato in un asino, che viene venduto ad un mugnaio. In esso si legge: “(…) Lì un gran numero di bestie da soma, descrivendo percorsi circolari senza fine, facevano ruotare con giri più o meno larghi le macine; e non soltanto di giorno, ma anche per tutta la notte, grazie alla rotazione ininterrotta di quei congegni, stavano svegli a produrre farina senza dormire mai. Quanto a me però, forse perché non mi lasciassi spaventare dalla prima esperienza di quel lavoro, il nuovo padrone mi trattò da ospite privilegiato: quel primo giorno infatti me lo diede di vacanza e mi riempì generosamente di cibo la mangiatoia. Tuttavia quella vita beata, fatta di ozio e di dieta ricostituente, non durò molto di più, perché già il giorno dopo di buon mattino vengo attaccato a una macina, e a quella che pareva la più grossa, e subito, con gli occhi bendati, vengo spinto sulla pista curva di quel fossato circolare in modo che, nel cerchio di quel solco che correva tutto in tondo, continuassi a ricalpestare le mie impronte tornandoci sempre sopra coi passi, e ad andare vagando senza meta lungo un percorso sempre fisso(…)” (Libro IX, 11).
Il racconto prosegue così ancora: “(…) La giornata era ormai quasi finita e io comunque ero proprio a pezzi, quando mi staccarono dal collare di corda e scioltomi dalla macina mi misero davanti alla mangiatoia. Io però, anche se ero completamente sfinito, assolutamente bisognoso di rimettermi in forze e davvero morto di fame, tuttavia, distratto e tutto preso dalla mia solita curiosità, misi per un momento da parte il cibo e ce n’era una quantità enorme e me ne stavo a osservare con un certo interesse l’organizzazione di quell’odioso posto di lavoro. Bontà divina, che sottospecie di uomini che c’erano! Con la pelle tutta segnata da lividi scuri, con la schiena piagata dai colpi, su cui uno straccio lacero più che coprire faceva ombra; alcuni poi avevano addosso solo un pezzo di panno ridottissimo intorno alle parti intime, e tutti quanti comunque erano vestiti in modo tale che attraverso quei cenci gli si vedeva tutto, avevano la fronte marchiata da lettere, la testa rasata a metà e i piedi incatenati, ed erano sfigurati dal pallore e con le palpebre consumate dall’oscurità nebbiosa di quell’ambiente buio e fumoso e perciò ci vedevano molto male(…)”(Libro IX, 12)
Tra le macerie rinvenute, dopo secoli di scoperte, Pompei ci regala ancora nuove emozioni.
Percorrendo quelle strade, se tendessimo l’orecchio, potremmo riuscire ad ascoltare ancora il ràglio dell’asino che, sottoposto a tali torture, riesce a portare avanti lavori estenuanti; il rumore dei sandali degli schiavi che, sull’asfalto, tra la farina sparsa, ha sempre la stessa cadenza, lenta e stanca, e l’odore del pane appena sfornato che inebria le strade.
Pompei, in questo caso, è anche questo: meraviglie e sconcerto!
Il mulino – Foto da comunicato stampa