The Dance of the Tree – Foto: Menandros Manousakis

Nella Repubblica Democratica del Congo la popolazione civile sta pagando ad altissimo prezzo la riconversione delle risorse.

Negli ultimi tempi, soprattutto in Europa, il dibattito sull’improrogabile transizione ecologica si è fatto sempre più acceso. Il cambiamento climatico è ormai un argomento all’ordine del giorno ed è diventato sempre più chiaro che la strada da percorrere è quella di abbandonare per sempre i combustibili fossili e sostituirli con la tecnologia verde e le risorse sostenibili. È stato questo l’oggetto del Green Deal, un insieme di iniziative politiche proposte dalla Commissione europea che si pongono l’obiettivo generale di conseguire la neutralità climatica entro il 2050, nel rispetto dei principi già fissati nel 2015 dall’Accordo di Parigi. In particolare spiccano gli obiettivi di creare un’economia moderna e competitiva, ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra nell’Unione di almeno il 55% entro il 2030 e creare un sistema per monitorare i progressi compiuti (per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito ufficiale dell’Ue).

È importante ricordare che gli Stati membri dell’Unione europea sono giuridicamente vincolati dal Green Deal e devono uniformare i propri standard nazionali alle disposizioni comunitarie. 

In questo dibattito ambientale la parola più inflazionata di tutte è “transizione ecologica”; ma cosa significa esattamente? Per “transizione ecologica” si intende il processo di innovazione tecnologica e ambientale che non tiene conto esclusivamente dei profitti economici, ma anche della sostenibilità ambientale. La conclusione che si potrebbe trarre da questa definizione è che si tratti di qualcosa di decisamente positivo, ma la domanda che dovremmo porci è: chi paga realmente le spese di questa nuova rivoluzione industriale?

Transizione ecologica – Foto: Menandros Manousakis

La necessità di convertirsi alle tecnologie per l’energia pulita ha creato una crescente richiesta su scala globale di metalli come il rame e il cobalto, componenti essenziali per la produzione della maggior parte delle batterie al litio. Per fare un esempio, la creazione della batteria di un telefono cellulare o di un altro dispositivo elettronico, come può essere un computer, richiede al massimo 50 g di cobalto, mentre la batteria di un veicolo elettrico ne richiede più di 13 kg. Le aziende e le multinazionali, in una frenetica corsa per accaparrarsi i metalli, hanno esteso gli scavi delle miniere sui territori agricoli del Congo, Paese ricco di tali risorse, causando la migrazione forzata della popolazione. Ciò è dettagliatamente documentato in un rapporto di Amnesty International del 12 Settembre 2023 in cui si legge che intere comunità, in violazione dei diritti umani, sono state sgomberate con la forza, minacciate e intimidite allo scopo di fargli abbandonare le loro case, talvolta promettendo un risarcimento del tutto irrisorio. I ricercatori di Amnesty International, esaminando documenti, fotografie e immagini satellitari della città di Kolwezi e delle zone circostanti, hanno riscontrato che le comunità locali, dopo la riapertura della miniera di rame e cobalto, sono completamente scomparse. Dalle testimonianze dei residenti del quartiere Cité Gécamines, particolarmente colpito dal riavvio delle attività minerarie, è emerso che la comunità locale non è stata previamente consultata. In particolare è emerso che i piani di espansione della miniera non sono stati resi pubblici, pertanto numerosi cittadini, fino a poco prima dell’avvio delle operazioni, erano ignari del fatto che la loro casa sarebbe stata demolita. Il risultato è che i residenti sfrattati si sono ritrovati a vivere da un giorno all’altro in case nella periferia della città, spesso anguste e quasi sempre prive di energia elettrica ed acqua corrente. Ci sono anche numerose testimonianze di abitazioni date alle fiamme dall’esercito, in particolare ad essere stato colpito è un insediamento chiamato Mukumbi. Tutto ciò in palese violazione di quanto previsto dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, dal Patto ONU II e di quanto scritto nel Commento generale 4 del 13.12.1991 del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, che tutti gli Stati aderenti hanno l’obbligo di rispettare e tutelare.

The Child – Foto: Menandros Manousakis

Oltre ad avere un impatto diretto sull’ambiente, va rilevato anche che, come documentato dai numerosi rapporti dell’Unicef e di Amnesty International, molta della manovalanza impiegata nelle miniere è composta da minorenni. L’ultimo dato Unicef, risalente al 2014, parla di circa 40.000 minori impiegati nell’industria dell’estrazione mineraria; tuttavia è verosimile credere che, con l’aumento della domanda, questi numeri possano essere ben più elevati. I bambini lavorano in condizioni estreme, per 12 ore al giorno, percependo meno di 2 euro per un’intera giornata lavorativa, in un contesto in cui gli incidenti sono all’ordine del minuto. Non appare, dunque, un caso che nella Repubblica Democratica del Congo il tasso di mortalità di bambini di età inferiore a 5 anni sia elevatissimo e, mentre in altre parti del mondo la mortalità infantile sembra ormai un fenomeno arginato, nei Paesi più sfruttati per le risorse minerarie e petrolifere subisce un notevole incremento. Le diverse ONG internazionali che operano in Congo sottolineano che numerosi bambini sono costretti ad andare a lavorare in miniera subito dopo l’orario scolastico o, nei peggiori casi, a lasciare la scuola definitivamente. L’insegnamento prescolare riservato ai bambini dai 3 ai 6 anni nella Repubblica Democratica del Congo non è obbligatorio; sarebbe invece obbligatorio dai 6 ai 10 anni, tuttavia le strutture scolastiche sono veramente poche e per molte famiglie è impossibile sopportare i costi. Sebbene il quadro normativo internazionale sia chiaramente in netto contrasto con le pratiche appena descritte, quanto avviene in Repubblica Democratica del Congo rappresenta l’ennesima scollatura tra il diritto e la realtà, tra ciò che dovrebbe essere e ciò che realmente è. Anche se appare ormai necessario parlare di “transizione ecologica”, è doveroso domandarsi in che modo questa vada attuata e, più in generale, da dove provengano le nostre risorse. L’incontrovertibile tendenza al green è una risposta necessaria ai numerosi allarmi sull’inquinamento ambientale che la comunità scientifica lancia ormai da anni, ma sarebbe altrettanto doveroso fare in modo che il verde non si trasformi in rosso sangue e che a pagare le spese di questa riconversione non siano le popolazioni già sfruttate da secoli per il benessere del mondo occidentale.

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