Sanssouci, Potdam (Germania) – Amore e Psiche – Foto: Giorgio Manusakis

La favola più bella che sia mai stata scritta – Le imprese impossibili di Psiche

Nella puntata precedente abbiamo lasciato Psiche disperata per l’irrealizzabile richiesta di Venere. Come riuscì a uscirne? In suo aiuto accorse l’essere laborioso per antonomasia: la formica. Fu, infatti, proprio una formichina ad aver pietà della sposa di Amore e a chiamare tutte le sue compagne grazie a cui, nel tempo richiesto dalla dea della bellezza, riuscirono a terminare il disumano compito affidato a Psiche.

Rientrata la sera da un banchetto nunziale, la dea vide che Psiche era riuscita nell’impossibile compito di dividere le migliaia di semi diversi che le aveva dato, e diede la colpa a suo figlio Amore, ma ciò non la fece desistere dai suoi propositi vendicativi, pertanto subito affidò a Psiche un’altra mission impossible, come si usa dire oggi, ma questa volta cercò anche di ingannarla. La dea, infatti, disse all’insopportabile nuora di procurarle un fiocco di lana preso dalle pecore dal vello d’oro che pascolavano tranquillamente in un bosco, ma omise intenzionalmente di dirle che quelle che solo in apparenza erano docili bestiole in realtà erano bestie ferocissime che non avrebbero esitato un istante a ucciderla. Ma anche questa volta Psiche ebbe un inatteso aiuto: mentre si avviava verso il bosco, ignara di ciò che l’attendeva, “una canna, di quelle che, come ispirate da un soffio divino, grazie al dolce fruscio di una tenue brezza, producono un suono soave…”(Apuleio, Metamorfosi, VI, 12) l’avvisò del pericolo e le consigliò di attendere il calar del sole, quando le belve si sarebbero calmate, e nascondersi sotto un altissimo platano, “e non appena le pecore, placata la loro furia, si saranno calmate, tu scuoti il fogliame della boscaglia lì intorno e troverai la lana d’oro che resta impigliata qua e là tra i rametti aggrovigliati.” (Apuleio, Metamorfosi, VI, 12). Psiche si attenne a quanto consigliatole dalla saggia canna e così facendo tornò indietro con il grembo pieno di lana d’oro da consegnare alla sempre più esasperata suocera. Anche questa volta Venere ritenne Amore il vero autore dell’impresa e anche questa volta, anziché desistere, le affidò una nuova e più difficile impresa: “Vedi la cima di quel ripido monte, che sovrasta quella rupe altissima? Da lì scaturiscono le onde scure di una nera fonte e, scorrendo all’interno della valle vicina che fa da ricettacolo, gettano le loro acque nelle paludi dello Stige e alimentano le roche correnti del Cocito. Tu devi riempire questa piccola urna con l’acqua gelida che viene proprio dal cuore della sorgente, nella parte più alta della fonte, e poi devi portarmela qui immediatamente.” (Apuleio, Metamorfosi, VI, 13). Per chi dei nostri lettori non lo sapesse, lo Stige e il Cocito sono i fiumi infernali che le anime devono attraversare prima di giungere nel regno dei morti, ragione in più perché Psiche sentisse l’impresa ancora più ardua. E poi lungo il tragitto vi erano dei terribili draghi nascosti tra stretti anfratti, e persino i fiumi sconsigliavano alla bella Psiche di proseguire nel suo cammino. Ma ecco che proprio mentre era al culmine della paura e della disperazione, arrivò in suo aiuto nientemeno che l’aquila di Zeus che, memore del servigio reso ad Amore quando su suo ordine rapì Ganimede per portarlo a Zeus, le tolse l’urna dalle mani e, destreggiandosi tra i numerosi pericoli, la riempì restituendola a Psiche. Ma la gioia con cui la ragazza portò l’urna alla sempre più infuriata Venere era destinata a scomparire presto. Difatti l’iraconda dea aveva ancora una prova da sottoporle, e questa volta l’indesiderata nuora non avrebbe avuto modo di uscirne viva! Venere quindi prese una scatoletta e, porgendola a Psiche, le disse: “…scendi immediatamente negli inferi, sì proprio lì dov’è la funebre dimora dell’Orco. Una volta lì, porgerai la scatoletta a Proserpina e le dirai: ‘Venere chiede se le mandi un po’ della tua bellezza, quella che basta anche per un solo giorno, perché quella che aveva l’ha già usata e consumata tutta, mentre stava ad assistere suo figlio malato’; – e, come se non bastasse, aggiunse – e non tornare tardi perché me la devo spalmare addosso prima di andare al teatro degli dei” (Apuleio, Metamorfosi, VI, 16).

Pietro Duranti su cartone di Fedele Fischetti – Psiche frustata dalla Solitudine e dalla Tristezza per ordine di Venere – Arazzo in lana e seta (1786) – Napoli, Palazzo Reale – Foto: Giorgio Manusakis

L’impresa più che ardua appariva impossibile. Come sarebbe stato possibile trovare la strada per andare nel regno dei morti e addirittura tornare tra i vivi dopo essere stata al cospetto della regina degli inferi? La strada per l’andata, a pensarci bene, non era così difficile da trovare, ma aveva un problema: si presentava senza ritorno; infatti Psiche, ormai rassegnata a vedere finita la propria esistenza, s’incamminò verso un’altissima torre da cui pensava di gettarsi. “Ma tutt’a un tratto la torre si mette a parlare: ‘perché, povera ragazza, ti vuoi ammazzare buttandoti nel vuoto? E perché così avventatamente ti arrendi proprio ora davanti a quest’ultima fatica, a quest’ultimo pericolo? Una volta che il tuo spirito si sia separato dal corpo infatti, arriverai sì, questo è certo, fin nel profondo del Tartaro, ma da lì non potrai tornare indietro in nessun modo. Invece ascolta me.” (Apuleio, Metamorfosi, VI, 17). La torre, a questo punto, spiegò a Psiche come fare per raggiungere il regno dei morti e portare a termine la sua ‘missione’ tornando tra i vivi. Certo era una strada che definire un po’ complicata sarebbe un eufemismo, il cui percorso non era facile né bello, infatti prevedeva il raggiungimento di un promontorio nei pressi di Sparta che ancora oggi si chiama Tanaro, dove, secondo il mito, vi era un ingresso all’Ade chiamato Dite, altro nome del dio dei morti. Psiche doveva portare una focaccia di farina d’orzo impastata con vino e miele in ognuna delle sue mani, e due monete in bocca; le focacce sarebbero servite per tenere a bada Cerbero, il celebre cane a tre teste guardiano degli inferi, mentre le monete erano destinate al traghettatore Caronte.

Durante il tragitto Venere aveva previsto più tranelli in cui far cadere l’indesiderata nuora: un asinaio zoppo le avrebbe chiesto di alzargli dei ramoscelli da terra, un vecchio morto, invece, di essere tirato su dalle acque durante il traghettamento e, infine, delle anziane tessitrici che le avrebbero richiesto un aiuto. Ma Psiche, le disse la torre parlante, non avrebbe dovuto farsi intenerire, proseguendo diritta per la sua strada fino a giungere dinanzi a Proserpina. Una volta lì però, le insidie non sarebbero ancora finite, infatti avrebbe dovuto rinunciare al comodo sedile e al lauto pranzo che le avrebbe offerto Proserpina, sedendosi a terra e mangiando solo del pane nero (per capire le origini di questo secondo tabù vi invitiamo a leggere la mitologia di Eleusi). Questa complicata e tortuosa strada era l’unico modo per Psiche di poter tornare dal regno dei morti e portare a termine la sua ultima prova e potersi così finalmente ricongiungere al suo amato Amore. E Psiche fece tutto esattamente come indicatole dalla torre parlante, ma cedette all’ultima insidia che Venere le aveva riservato e che faceva leva su una caratteristica tipicamente femminile che la dea conosceva molto bene: la vanità! Cosa accadde, però, vi sarà svelato nell’ultima puntata di questa favoloso mito.

Francesco Manzini – ‘La toletta di Venere’ (1699) – Napoli, Museo di Capodimonte – Foto: Giorgio Manusakis

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