Il Vesuvio visto da Sant’Elmo – Foto: Giorgio Manusakis
Quanto è stata importante l’opera dei monaci amanuensi napoletani?
Se parliamo di monaci amanuensi, la nostra immaginazione vola subito a capolavori come ‘Il nome della rosa’, a un’epoca pre-Gutenberg in cui i testi venivano trascritti a mano, e a luoghi, come monasteri e cenobi, in cui avveniva questa gigantesca opera di trascrizione. Ma vi siete mai chiesti in che modo e dove ciò avveniva nelle nostre città? Nella Napoli Bizantina che, per la cronaca, è di molti secoli precedente all’ambientazione del capolavoro di Umberto Eco, la traduzione dei testi classici e la copia di codici ebbero particolare rilievo, questo perché tale opera amanuense fu affiancata da una letteratura agiografica, che le diede una connotazione prettamente cristiana. Sebbene san Girolamo ammonisse dall’operare su testi e scritture non cristiane, gli amanuensi napoletani non trascurarono affatto le letture dei classici antichi, che aiutavano le loro riflessioni sul paganesimo. Gli antichi classici greci furono la materia di trattazione principale per loro, anche se nelle trascrizioni e nelle traduzioni sovente cambiarono dei versi, aggiunsero interpolazioni o modificarono completamente alcuni periodi per ‘cristianizzare’ lo scritto. I cenobi erano di origine greca o latina: in quelli di origine greca si trascrivevano codici o testi di classici greci, la cui traduzione era affidata a quelli di origine latina. Non essendoci ancora il rigore della ‘regola di san Benedetto’, i cenobi latini, che avevano a capo un abate, osservavano le regole spesso scritte dall’abate stesso, mentre in quelli di origine greca i monaci venivano chiamati ‘basiliani’ perché seguivano la regola di san Basilio, chiamata Typicon.

Il monastero di Santa Chiara visto dall’alto – Foto: Giorgio Manusakis
Non essendoci accordo sulle regole da seguire, non era raro che ci fossero delle animate discussioni tra i monasteri orientali e quelli latini. In alcuni luoghi come l’attuale Megaride, all’epoca ‘Isoletta del Salvatore’, dove vi erano numerosi cenobi sia latini che greci, tali dispute non solo erano molto frequenti, ma talvolta sfociavano in vere e proprie violenze. Ma oltre al luogo dov’è oggi Castel dell’Ovo, dov’è che gli amanuensi davano vita alla loro opera? Principalmente nella zona anticamente chiamata Oppidum Lucullanum, ovvero tra il monte Echia, Castel dell’Ovo e Castel Nuovo. Ma non mancavano monasteri anche in centro, come quello greco di San Sebastiano, che si trovava dove attualmente c’è il liceo Vittorio Emanuele II; nota che qualcuno troverà curiosa: numerosi monasteri greci erano femminili. Tra i monaci di quel periodo va menzionato l’abate del monastero di San Severino, Eugippio, un uomo di profonda cultura che, in un’epoca in cui reperire le opere classiche non era affatto facile, fece sì che il lavoro dei suoi confratelli arrivasse fino in Africa. Ma più ancora va ricordato per essere stato lui stesso un fecondo scrittore. La sua opera più celebre fu il Commemoratorium Vitae S. Severini, datato 511, in cui narra della vita del santo di cui egli stesso fu discepolo. Inoltre, fu autore degli Excerpta ex Operibus S. Augustini, di cui si sa che esisteva una copia nella biblioteca dell’arcivescovado di Napoli nel VI secolo: particolare importante perché testimonia quanto fosse emancipata la cultura a Napoli già a quei tempi, dato che era cosa rara, anche per un vescovo, potersi permettere una biblioteca capitolare con degli amanuensi, un bibliotecario, dei calligrafi e dei trascrittori di codici. Quanto finora scritto in sintesi basta a comprendere il motivo per cui Napoli, dopo Roma, a quel tempo fosse ritenuta uno dei principali centri monastici non solo per la diffusione del Cristianesimo, ma soprattutto per la diffusione della cultura in genere. Una caratteristica che la città Partenopea ha sempre avuto, fin dalla sua fondazione.

La certosa di San Martino vista da Sant’Elmo – Foto: Giorgio Manusakis