Villa delle Ginestre, Torre del Greco (NA) dove soggiornò Leopardi – Foto: Giorgio Manusakis

L’Infinito rappresenta sicuramente una delle poesie più belle e famose del grande poeta italiano Giacomo Leopardi, nato nelle Marche a Recanati nel 1798 e morto a Napoli a poco meno di 40 anni nel 1837.

Il componimento appartiene alla raccolta dei Canti, prodotta dall’autore nei suoi anni giovanili tra il 1818 ed il 1819. Successivamente, verso il 1826 la poesia fu inserita in un quaderno, intitolato “Idilli”, che è custodito tuttora presso la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III di Napoli.

La struttura ed il contenuto della poesia

Il celebre testo poetico, formato da 15 endecasillabi sciolti, fa uso di elementi del paesaggio naturale, come il colle, la siepe, il soffio del vento, per esprimere un forte senso di indefinitezza, a cui si associa, nella filosofia leopardiana, una dimensione di incertezza e precarietà della vita umana. Tali concetti vengono divulgati mediante una sintassi molto semplice, basata sull’uso contenuto di frasi subordinate, le quali vengono talvolta riportate con l’impiego di verbi al gerundio. Il ricorrente utilizzo dei pronomi dimostrativi (“quest’ermo colle”, “questa siepe”, “quest’immensità”) non sembra un fatto casuale ma espressione di un graduale procedimento che porta l’io leopardiano, spinto da uno stato d’animo che oscilla tra curiosità di conoscenza e paura del futuro, a fondersi con l’infinità della natura e dell’universo. 

L’analisi sul manoscritto di Napoli mediante la RTI

Il manoscritto napoletano su cui è riportata la celebre lirica di Leopardi è stato oggetto, in questi anni, di studi finalizzati alla comprensione delle sue varie fasi di stesura. Perseguendo tale scopo, un gruppo di ricercatori dell’Università di Bologna, guidato dalla prof.ssa Paola Italia, ha fatto ricorso alla RTI – Reflectance Transformation Imaging. Questa tecnologia è già da tempo applicata in ambito archeologico per studiare le ceramiche, risalenti anche ad epoche molto lontane come l’Età del Bronzo. Affinché la RTI possa svelare “fenomeni di superficie”, come anche nel caso di un manoscritto antico, occorre visualizzare i reperti in differenti condizioni di illuminazione. Per l’analisi del documento leopardiano custodito presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, Paola Italia ed i suoi colleghi filologi si sono avvalsi del supporto scientifico del Laboratorio Fotografico e Multimediale FrameLab del Campus di Ravenna dell’UniBo. Le apparecchiature necessarie per l’applicazione della RTI, invece, sono state fornite dall’ente culturale no profit Cultural Heritage Imaging.

A conclusione di questa indagine, sono emersi alcuni importanti risultati, rivelati poi dagli stessi ricercatori in un convegno tenutosi a Bologna nel 2019. L’elaborazione del manoscritto leopardiano si sarebbe articolata in tre fasi. Ad una prima stesura, effettuata tra il 1818 ed il 1819 con la penna della scrittura base, avrebbe poi fatto seguito una serie di correzioni apportate con un inchiostro più scuro ad un anno di distanza circa, cioè intorno al 1820. Infine, un terzo intervento del poeta, con cui si sarebbe giunti all’edizione definitiva del manoscritto, sarebbe riconoscibile in ulteriori modifiche applicate con una penna dall’inchiostro rossiccio.

Villa delle Ginestre, la stanza di Leopardi – Foto: Giorgio Manusakis

La recente riscoperta di un presunto autografo più antico

Nell’ottobre 2021, un ricercatore, il prof. Pasquale Stoppelli, specialista in filologia, ha riacceso l’attenzione dell’opinione pubblica su un altro presunto manoscritto autografo de L’Infinito. Il documento in questione, custodito attualmente presso la casa d’aste Finarte, risultava essere in origine una nota di pagamento della Camera Apostolica, che un giovanissimo Leopardi avrebbe riutilizzato per scrivere i primi 11 versi della sua lirica (fino al verbo “comparando”). Molto interessante è un dato secondo Stoppelli, ovvero la data 1817 riportata in filigrana sulla parte posteriore del foglio; un elemento, questo, che induce a collocarlo prima della stesura del manoscritto napoletano. Inoltre, tale cronologia anteriore sarebbe rafforzata a suo avviso da ulteriori elementi stilistici, come ad esempio la presenza di parole doppioni che inducono ad attribuire un carattere volutamente aperto a tale primitiva bozza della lirica. Il documento in oggetto in realtà era stato già pubblicato per la prima volta sul finire dell’Ottocento dall’abate di un monastero basiliano di Grottaferrata, tale Giuseppe Cozza Luzzi, il quale ne aveva fortemente sostenuto l’autenticità. Tesi, quest’ultima, respinta con forza nel 1966 da Sebastiano Timpanaro, uno dei più autorevoli esperti della poetica leopardiana, ma che ora sembra essere tornata alla ribalta con il saggio del prof. Stoppelli, pubblicato nel 2021 sulla rivista Prassi ecdotiche della modernità letteraria.   

Napoli, la tomba di Giacomo Leopardi – Foto: Giorgio Manusakis

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