Tra i tanti scrittori statunitensi importanti degli ultimi cinquant’anni, Don DeLillo non è sicuramente tra i più noti in Italia, tutt’altro. Si può anzi dire che, nel nostro Paese, è uno scrittore di nicchia. Se ne parla poco e si legge anche meno. Tuttavia, è sicuramente tra i più talentuosi della sua generazione.

È nato a New York nel 1936, in una famiglia di immigrati italiani. I genitori erano partiti da un minuscolo paese in provincia di Campobasso, Montagano. Si è laureato alla Fordham University, una delle più prestigiose università newyorkesi, e ha iniziato subito a lavorare come pubblicitario, coltivando la passione per la musica e la scrittura. Ha pubblicato il suo primo romanzo relativamente tardi, nel 1971, quando aveva 35 anni. Si intitolava Americana e fu seguito da un nuovo romanzo quasi ogni anno fino al 1985, quando uscì Rumore bianco, la sua consacrazione definitiva. Il libro gli valse l’ambitissimo National Book Award e l’ingresso nell’accolita di scrittori di culto come Thomas PynchonDavid Foster Wallace e Paul Auster, vale a dire i pilastri del postmodernismo americano.

Rumore bianco è l’espressione perfetta degli anni Ottanta, il decennio che la sua uscita spacca esattamente a metà. DeLillo, lo confermeranno i suoi lavori successivi, ha la capacità di osservare e rielaborare con estrema rapidità il mondo che lo circonda, di descriverlo nel momento stesso in cui si srotola davanti ai suoi occhi, senza il bisogno di superarlo per poterlo guardare a distanza.

In questo romanzo ci presenta il mondo di un professore universitario, Jack Gladney, che vive insieme alla moglie Babette e ai figli nati dal loro matrimonio e dai precedenti di entrambi. Le loro occupazioni principali riguardano, appunto, la affollata vita familiare, con gli strepitosi personaggi dei figli – veri capolavori di costruzione di personaggi letterari secondari -, le sortite ai centri commerciali e le conversazioni con un collega di Jack, Murray. Come sottofondo a questo mondo così prosaico, i mezzi di comunicazione di massa: TV e giornali, il rumore bianco della vita di una famiglia borghese americana.

Il romanzo è fitto di personaggi e di eventi, di dettagli biografici e di esperienze minute. Ma nello stesso tempo apre uno squarcio ampissimo e profondo su tutta la società occidentale degli anni Ottanta. E mentre ci descrive la forza dei legami familiari e il potere dei media, ci racconta della più universale delle paure, dell’incubo dell’uomo di ogni tempo, dell’oggetto dei tentativi più disparati di esorcizzazione: la morte. È questo il vero rumore bianco del romanzo, in effetti. L’elemento che sottende l’intera narrazione. A partire dalla prima scena, l’arrivo degli studenti nel campus universitario dove Jack insegna, “uno spettacolo cui assisto ogni settembre da ventun anni”, ci dice lui stesso. Un evento che ha il sapore dell’eternità, della ripetizione sempre uguale a se stessa, ma che verrà smentito dalle pagine successive. Quei giovani non compariranno mai più nel racconto. Comparirà invece, costantemente e sottilmente evocata quasi in ogni pagina, la morte, appunto. O meglio, la paura della morte. Da persone colte ed emancipate quali sono, Jack e Babette non hanno paura di morire, né pensano di poter evitare la morte. Fanno invece carte false per mettere le mani su una pillola che non dà la vita eterna, come il contratto di Faust, ma che permette di vivere senza la paura della morte. Accettano la fine della vita, ma non accettano una vita minata dall’ansia dell’ultimo respiro. Vogliono godere ogni attimo della loro esistenza. Come dire, l’edonismo reaganiano degli anni Ottanta in una sua posa plastica. La scienza, vero culto religioso del nostro tempo, sembra essere riuscita a racchiudere e condensare in pochi millimetri una sostanza che toglie dall’animo degli esseri umani una cosa eterea come la paura. È il superamento definitivo e totale dell’invenzione dell’inferno e del paradiso. E in un certo senso è anche la consacrazione dell’unicità della vita terrena.

I romanzi di DeLillo descrivono l’America così com’è, senza infingimenti e senza commenti. I suoi libri sono una fotografia impietosa e cruda della società. Non ci sono né condanne né assoluzioni, né buoni né cattivi. Non c’è morale né moralità. DeLillo non vuole dirci cosa fare o cosa pensare, DeLillo ci dice come siamo fatti. La sua tecnica raffinatissima è come un coltello che scava la carne e definisce lacerti di mondo, senza che il sangue coli o le ossa si rompano.

Ma i suoi romanzi non hanno un narratore onnisciente che assuma il controllo della narrazione e incarni il centro morale degli eventi il quale, come dicevamo, non c’è. Il suo stile apparentemente disordinato, con cambi di prospettive, di tempi, di linguaggi, è l’ulteriore rappresentazione della sua vocazione totalitaria dell’esposizione, del suo sguardo ecumenico sull’uomo. Tutti i suoi romanzi sono densissimi, una miniera ricchissima di temi, di riflessioni, di rappresentazioni, di personaggi. L’opera considerata il suo capolavoro, Underworld, pubblicato nel 1997, è un romanzo-mondo in cui la poetica dello scrittore statunitense raggiunge la massima espressione. In un volume di quasi mille pagine, DeLillo mette a punto un meccanismo temporale e spaziale di ineffabile virtuosismo per raccontare, ancora una volta, un’America sfaccettata e complessa, dove si alternano personaggi distanti per etnia, classe sociale ed epoca, dove i temi spaziano dallo sport alla politica, alla gestione della spazzatura. Impossibile non pensare a James Joyce. DeLillo ha interiorizzato la sua tecnica narrativa, ha assorbito l’idea del racconto corale, ha accolto il valore dei dettagli. E tanto altro.

Finora, la lunga serie di titoli pubblicati e di premi vinti da DeLillo non ha fatto breccia nel cuore dei lettori italiani. Di sicuro, leggere questo gigante della narrativa contemporanea non è un’occupazione dilettevole. È verosimile che con il tempo sedimenti e che la sua scrittura apparentemente discontinua e caotica si insinui con lentezza inesorabile anche tra le preferenze dei lettori nostrani.

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