La statua del dio Nilo – Foto: Giorgio Manusakis

Un filo rosso fra Parthenope ed Alessandria d’Egitto.

La statua del dio Nilo risale all’epoca della Napoli greco romana, zona sviluppatasi prevalentemente nell’attuale centro storico dalla fine del VI secolo a.C. in poi. Una nuova datazione, questa, postulata alla luce dei numerosi scavi effettuati negli ultimi anni ed ampiamente illustrati anche nel corso del 62esimo Convegno di studi sulla Magna Grecia, tenutosi a Taranto nel 2023, che supera definitivamente quella ‘tradizionale’, riportata in autori come Lutazio, Strabone, Livio e Velleio Patercolo, la quale pone la fondazione della città da parte di Cuma all’indomani della battaglia navale del 474 a.C. contro gli Etruschi. La polis, della quale faceva parte anche il più antico insediamento di Parthenope fondato sempre dai Cumani, secondo i dati archeologici, entro la fine dell’VIII secolo a.C. tra la collina di Pizzofalcone e l’isolotto di Megaride (su di esso si colloca il Castel dell’Ovo), nonostante l’influenza dei Sanniti, che nell’ultimo quarto del V secolo a.C. si impadroniscono delle vicine Capua e Cuma, ed il controllo politico dei Romani dal 326 a.C., manterrà, nel tempo, la sua autonomia istituzionale e culturale.

È proprio al suo interno che, a partire dal I secolo a.C., si stanziano colonie provenienti da Alessandria d’Egitto composte da mercanti, schiavi e viaggiatori, collocate prevalentemente tra via San Biagio dei Librai e via dei Tribunali, zona appartenente all’epoca alla Regio Nilensis (oggi via Nilo). Questo toponimo deriverebbe non solo dal rinvenimento della statua del dio, ma anche dalla presenza di un fiume che, partendo dalla zona collinare, sfociava nel mare, passando per l’attuale corso Umberto I, probabilmente, uno dei due rami in cui si divideva l’antico fiume Sebeto, che nasceva dalle sorgenti della Bolla, alle falde del Monte Somma. 

Neapolis gli alessandrini si stabilirono molto bene, accolti come se fossero nella loro terra, visto che gli si permise la costruzione della statua del dio Nilo e del tempio dedicato ad Iside che, per la comunità alessandrina, lontana dalla propria terra, rappresentava una protezione durante la navigazione. La Regio fu quindi chiamata Nilensis, in onore del grande fiume egiziano che, per la “terra forgiata dal sole e dalla sabbia”, grazie alle periodiche inondazioni capaci di renderla fertile, rappresentava una fonte importante di sostentamento, svolgendo anche un’importante funzione economica.

La statua del dio Nilo – Foto: Giorgio Manusakis

In onore di questo fiume venne eretta una statua che rappresenta il dio del Nilo con tanto di sfinge (la cui identificazione avverrà solo nel XV secolo, riportata alla luce a ridosso della cinta muraria della città, durante la costruzione di un palazzo) e, nei pressi, un tempio dedicato alla dea Iside, divinità della magia, della fertilità e della maternità, e quindi una delle più importanti figure del pantheon egizio. Sui resti di questo tempio sorge, con tutta probabilità, la Cappella Sansevero, costruita nel 1593 e modificata nel Settecento, quando il principe Raimondo di Sangro iniziò ad ampliarla e arricchirla con diverse opere d’arte, al fine di testimoniare la grandezza del suo casato.

Nel corso dei secoli, la statua del dio Nilo darà origine a numerose leggende, come quella che lungo la direzione in cui guardava la sfinge si celasse un tesoro o un’altra legata al ‘triangolo delle forze’ che unisce Napoli all’Egitto. Ma, col passare del tempo, essa viene dimenticata per essere poi ritrovata nella metà del XII secolo, ma senza testa, durante la costruzione dell’edificio del Seggio, nell’attuale largo, come si legge nelle opere storiche di Camillo Tutini e Giovanni Antonio Summonte e come più recentemente ribadito da Ludovico de la Ville Sur-Yllon. Ricordiamo che a Napoli, in quel periodo, Seggi, Sedili o Piazze rappresentavano le sedi delle istituzioni amministrative della città, dove si riuniva la nobiltà per le relative discussioni.

Poi un nuovo oblio ed abbandono, sino a che, nel XV secolo, ricchi mercanti residenti nell’attuale centro storico napoletano faranno abbattere e ricostruire palazzi come, ad esempio, il Palazzo Donnaromita, la cui edificazione risale al 1300 (oggi una delle sedi dell’Università Federico II). Durante i lavori emerge di nuovo la statua, ancora priva della testa, il che faceva ritenere che stesse allattando un neonato e da qui la deduzione che raffigurasse la sirena Parthenope intenta a nutrire i propri figli, tant’è che assunse, nel linguaggio popolare, la locuzione “O cuorp ‘e Napule”, madre amorevole che allatta, protegge e nutre i suoi abitanti.

La statua del dio Nilo – Foto: Giorgio Manusakis

Solo nel 1657, all’atto di demolire il vecchio edificio del Sedile, la statua del dio Nilo assume un’identità vera e propria. Viene adagiata su un basamento e restaurata, per iniziativa delle famiglie del seggio, dallo scultore Bartolomeo Mori, integrandola con la testa di un uomo barbuto, sostituendo il braccio destro, aggiungendovi una cornucopia (simbolo dell’abbondanza, della fertilità e della prosperità), la testa di un coccodrillo, presso i piedi del dio, e quella di una sfinge, collocata sotto il suo braccio sinistro. Saranno inoltre aggiunti dei putti che in epoca greco-romana apparivano come bambini nudi a rappresentare Eros, dio dell’amore. Infine, sul basamento, viene posta un’epigrafe.

La statua, ancora una volta, subisce dei danni ma, sul finire del XVIII secolo, si effettuano nuove riparazioni e restauri, patrocinati dalle famiglie Dentice e Caracciolo e commissionati a personalità di spicco, come l’architetto Luigi Sanfelice, noto per la progettazione del Palazzo dello Spagnolo e del Palazzo Sanfelice nel rione Sanità. Essendo poi andata perduta anche la prima epigrafe, ne verrà applicata un’altra, tuttora presente (realizzata dall’erudito Matteo Egizio).

L’epigrafe alla base della statua del dio Nilo – Foto: Giorgio Manusakis

Nel tempo si perpetuano ancora danni sull’opera che rendono necessari ulteriori restauri (uno dei quali è legato allo scultore Angelo Viva), fino al secondo dopoguerra, quando vengono rubate parti del monumento allo scopo di rivenderle al mercato nero. La testa della sfinge viene ritrovata in Austria nel 2013, dopo sessant’anni, dal nucleo tutela patrimonio artistico dei Carabinieri. Si dà inizio, così, ad un definitivo restauro, durato quasi tutto il 2013, conclusosi nel mese di novembre. Proprio il 15 novembre di quell’anno la statua viene restituita alla città di Napoli con una solenne inaugurazione.

Lucia Fontanarosa

Di admin

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