Trama

            Zvi Provizor, un giardiniere con la passione per le brutte notizie più che per le zolle di terra, è sensibile alla compagnia di Luna Blank, un’insegnante il cui marito è morto anni prima, mentre prestava servizio come riservista nella Striscia di Gaza. Ma il cinquantacinquenne Zvi non ama le strette di mano né altri contatti e così Luna Blank si allontana da lui sotto lo sguardo divertito degli altri membri del kibbutz, a cui non sfugge la frequentazione che la donna intrattiene prima con l’allenatore di basket e poi con un membro dei Giovani pionieri combattenti, fino alla partenza senza preavviso per l’America, dove abita sua sorella.

Resta ancorata al proprio mondo, invece, Osnat, lasciata dal marito il quale va a vivere con la divorziata Ariela, sua vicina di casa e responsabile del Comitato culturale. Poco dopo l’inizio della convivenza, Ariela scrive a Osnat rivelandole di sentirsi comunque sola e di volerle parlare. Ma la donna abbandonata non risponde alla richiesta fattale tramite missiva dalla nuova fiamma del marito, preferendo andare avanti con la propria vita che ruota attorno al lavoro in lavanderia.

Qui porta spesso i panni sporchi del padre Edna, la figlia di Nahum Asherov, il cinquantenne elettricista del kibbutz, un vedovo che da anni affronta il dolore per la morte del figlio primogenito, ucciso durante un’operazione militare. Nahum ora non trova pace per l’inattesa scelta della figlia diciassettenne di andare a vivere con il suo ex insegnante di storia, David Dagan, un marxista ultracinquantenne e padre di figli avuti da quattro donne diverse. “Finirà male tra Lolita e Barbablù”, sentenziano con ironia i saggi del kibbutz, mossi da sincera compassione per l’elettricista.

Essi provano lo stesso sentimento per uno studente del professore. Si tratta di Moshe Yashar, un sedicenne che a sette anni è rimasto orfano della madre. È cresciuto nel kibbutz Yekhat, ai cui istituti scolastici lo hanno affidato gli assistenti sociali dopo che si erano ammalati sia il papà che l’unico zio che aveva. Moshe, per riabbracciare il padre che è in ospedale, di tanto in tanto chiede di poter lasciare per alcune ore la comunità, della quale è membro a tutti gli effetti.

Un destino diverso si profila per il piccolo Yuval, il figlio del falegname Roni Shindlini. Ha cinque anni, è un bimbo basso, lento e pauroso, si ammala spesso e viene preso in giro dai bimbi dell’asilo, che lo chiamano Yuval, il Piagnone. Nonostante i maltrattamenti dei coetanei e la freddezza delle maestre, che lo amano poco perché non sa difendersi, la madre ritiene opportuno allontanarlo dalle amorevoli cure del padre e farlo crescere nella Casa dei Bambini, dalla quale il piccolo, di notte, tenta di fuggire.

Proprio la notte, complice la ronda, fa volare il pensiero del segretario Yoav Carni, marito e padre di due gemelli, a Nina Serota, della quale è innamorato sin da quando è bambino. Madre e assistente sociale, Nina, di quattro anni più giovane di Yoav, si è rivolta a lui confidandogli di voler lasciare il marito. Il desiderio di rifarsi una vita la accomuna a un altro giovane, Yotam che, a differenza di lei, medita di abbandonare il kibbutz per ricostruirsi una vita altrove, magari in Europa, per la precisione in Italia dove abita uno zio. Come molti suoi coetanei, Yotam non è pronto alla mobilitazione d’Israele, che era invece al centro dei pensieri della generazione della Shoah e della Guerra d’Indipendenza. A quest’ultima appartiene il vecchio calzolaio Martin Wandberg, un idealista e anarchico che, nonostante abbia assistito all’imborghesimento del kibbutz, fino all’ultimo giorno della sua vita ha fede nella pace universale, al cui spirito si educa attraverso lo studio dell’esperanto.

Perché leggerlo

Partendo dalla propria esperienza di vita, lo scrittore Amos Oz, vissuto in Israele tra il 1939 e il 2018, ha creato il kibbutz Yekhat, con il quale ci fa conoscere una vita comunitaria che, per quanto idealizzata, meriterebbe di essere riscoperta e valorizzata. Perché è auspicabile un mondo in cui ognuno usa i propri talenti per il bene di un’umanità incoerente e fragile, eppure meravigliosamente laboriosa e vitale.

Attraverso un testimone che per trent’anni lo ha vissuto e poi lo ha narrato con uno stile essenziale e per nulla trasognato, scopriamo cos’è un kibbutz, la risposta ebraica alla domanda di felicità che accomuna tutti gli uomini. Qui la routine è ravvivata da una giusta dose di ironia, che rende la vita del kibbutz una piacevole oasi nell’arido mondo del consumismo. In questa comunità l’uomo è più importante non solo del denaro ma anche delle idee. Non ne è posseduto anche se è un essere pensante, mosso da desideri e a volte anche dall’istinto che lo fa diventare, o sembrare, vero per quanto incoerente. Ovviamente gli ideali ci sono e vengono perseguiti dalla comunità, ma la forza dei sentimenti è tale che, senza nessuna imposizione, spezza ogni resistenza morale. Chi non vorrebbe vivere in una comunità in cui la violenza è bandita, perché esistono ideali in nome dei quali ciascuno lavora per gli altri, perché è utile solo ciò che fa star bene tutti i membri? Vivere come Tra amici sarebbe auspicabile, perché i tentativi di creare comunità, che puntano su autentici legami e sulla valorizzazione dell’identità, andrebbero riscoperti. Anche se poi, a ben vedere, “tutti sono compagni, ma ben pochi sono amici veri”.  Nella quotidianità degli abitanti del kibbutz Yekhat ritroviamo un po’ noi stessi, perché le paure, i desideri, le fragilità sono uguali per tutti. Ma scopriamo una mancanza: nella comunità descritta c’è una tensione all’ugualitarismo che non si riscontra nella nostra società, estremamente materialista, molto poco pragmatica, per nulla idealista, men che meno ideale. Eppure pronta a giudicare e a sentenziare gli altrui tentativi di realizzare un microcosmo di pace e fratellanza, dipinto in questo libro con un realismo pieno di empatia e partecipazione.

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