Trama

            Da generazioni, i discendenti della famiglia Agnello, appartenente all’aristocrazia terriera siciliana, trascorrono almeno alcuni mesi dell’anno nella casa padronale di Mosè, a pochi chilometri dalle Valle dei Templi di Agrigento. Qui, negli anni Cinquanta del Novecento, da maggio il barone vi si trasferisce con la moglie e le due figlie, Simonetta e Chiara, assieme al personale di servizio e vi rimane fino alla fine dell’estate, quando tutti tornano in città per l’inizio della scuola.

Le bambine, anno dopo anno, crescono godendo della natura e del buon cibo assieme ai parenti e ad altri ospiti fissi che li raggiungono da metà giugno: i nonni paterni; zia Teresa, la sorella di mamma, assieme a zio Peppino e al cugino preferito, Silvano; zio Giovanni con la sua famiglia; zio Ignazio, primo amore della piccola Simonetta, con la moglie; i “pretini”, cioè gli allievi del seminario di Agrigento, che non disdegnano di fare ogni anno una scampagnata nel podere del barone.

Ogni mattina, mentre i bambini giocano o lavorano nei campi, le donne, a turno e a giorni alterni, fanno il pane, a volte condito con olive nere, sarde salate, frittole di maiale o pecorino. Ancora oggi il pane caldo intinto nella ciotola piena di olio e sale è ricordato da Simonetta come il cibo più buono mai assaporato. Una delle madri del casale, Rosaria, ne prepara anche per i garzoni, i braccianti e gli operai che lavorano nella campagna di Mosè. Ad agosto ne fa anche per le Mennulare, ragazze da marito poverissime, che ogni agosto arrivano per raccogliere le mandorle mature e potersi così pagare il corredo, dopo aver aiutato economicamente i propri genitori. Dovendo preservare la verginità e con essa il proprio buon nome, le Mennulare incontrano i contadini solo quando lavorano nei campi, mentre le contadine assieme alla baronessa tolgono il mallo alle mandorle aiutandosi con le pietre. Con le mandorle la mamma di Simonetta, aiutata da sua sorella, zia Teresa, prepara dei dolci squisiti, che si vanno ad aggiungere a biscotti, crostate, panzerotti, biancomangiare e pasticciotti farciti con crema e amarena. Questi dolci accompagnano pranzi e cene fatti di pietanze preparate con verdura fresca e succulenta frutta di stagione raccolta dai campi di Mosè. La carne è qui di casa solo da quando arriva l’elettricità e con essa il frigorifero. Si può ben capire perché, dopo pranzo, tutti gli abitanti del podere vanno a riposare fino alle cinque del pomeriggio, quando i membri adulti della famiglia si ritrovano in terrazza, elegantemente vestiti, mentre i bambini giocano a fare gli archeologi nei campi. Il frigorifero torna utile anche per conservare il gelo di mellone e il gelato, che, negli anni in cui non c’è l’elettricità, è un ricordo che rende ancor più preziose le rare uscite in auto, aventi come destinazione il centro abitato o il mare. Un altro elettrodomestico che rivoluziona la vita della comunità di Mosè, e non solo, è la televisione. Sono gli anni di Carosello e di Rischiatutto, due programmi capaci di ipnotizzare grandi e piccini, aggregando così gli abitanti del podere a prescindere dal ceto sociale e dall’età, due elementi che fino ad allora hanno regolato i rapporti della piccola comunità di Mosè.

La spensieratezza dura poco, però: arriva il periodo dei sequestri e della legge che prevede l’esproprio delle terre ai possessori di più di duecento ettari. Anche il barone, nonostante abbia meno ettari, è preoccupato e in casa gli adulti comunicano tra di loro usando un linguaggio in codice quando sono in presenza dei bambini. A essere rapito per tre mesi è anche Francesco, uno dei cugini che Simonetta, oramai adolescente, frequenta quando la famiglia si trasferisce a Palermo. Più che per sé, Simonetta teme per il cugino a cui è più legata, Silvano, perché sa che la mafia, in quel frangente, non rapisce le donne.

Perché leggerlo

Mosè è il luogo del cuore di Simonetta Agnello Hornby, che dalla campagna agrigentina è partita alla volta del Vecchio Continente portando con sé l’alloro che unito all’acqua e al limone ancora oggi le rievoca profumi e affetti di un mondo che non c’è più.

            Al centro della narrazione fluida con cui la scrittrice rivive le estati dell’infanzia trascorsa a Mosè c’è la cucina, il cuore della casa di campagna perché qui le donne socializzavano e trasformavano con amore il pane, gli ortaggi e la frutta di stagione in pietanze e dolci da condividere con gli abitanti del podere che lavorano nei campi. Sullo sfondo ci sono personaggi di un mondo antico che si muovono in paesaggi dalla natura incontaminata su cui risplendono le chiome argentate degli ulivi e quelle colorate degli alberi da frutto, che si estendono per chilometri in direzione della Valle dei Templi di Agrigento, patrimonio Unesco dell’umanità come la dieta mediterranea celebrata nel libro. La narrazione è dichiaratamente intrisa di amore per la famiglia, che oggigiorno qualcuno potrebbe definire queer, e per persone con cui la famiglia Agnello collaborava in un clima disteso almeno fino al sopraggiungere degli anni dei sequestri di persona e della riforma agraria. Gli odori intensi della cucina, i sapori delle pietanze succulente e i dolci dagli aromi delicati sono il leit motiv di un libro che sin dal titolo, Un filo d’olio, omaggia l’elemento più semplice che lega tutti gli ingredienti, esaltandone la bontà. La cucina diventa così un simbolo di relazione e cura del prossimo, oltre che del lavoro fatto con amore. È un luogo da riscoprire, magari partendo proprio dal ricettario di famiglia, scritto dalla nonna della scrittrice, che condivide col lettore nella convinzione che la personalizzazione che vorrà farne renderà ancora più gradita ogni ricetta.  

Dal ricordo emerge un mondo andato purtroppo perduto, ma che viene una gran voglia di conoscere non fosse altro che per il desiderio di apprenderne i riti migliori da recuperare e tramandare con convinzione alle generazioni future.

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