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Foto: Menandros Manousakis

È giusto impedire alle autorità di sbloccare il cellulare di un terrorista? E che uno Stato controlli i cellulari e i pc di tutto il mondo?

Ricordate la strage di San Bernardino negli Stati Uniti in cui, il 12 dicembre 2015, marito e moglie uccisero 14 persone e ne ferirono 24? Ciò che fece parlare molto fu che la Apple si rifiutò di sbloccare gli i-phone dei terroristi dicendo che non intendeva violare la loro privacy, benché avessero fatto una strage e fossero morti. L’FBI risolse il problema pagando circa un milione di dollari a degli hacker che sbloccarono i cellulari. Mi sembra che sia l’esempio perfetto da cui partire per rispondere a questa domanda: fino a che punto va difesa la privacy delle persone? C’è chi ritiene che non vada violata in nessun caso, affermando che siamo tutti dei sospettati fino a quando non si commette il reato, dunque dovremmo essere sempre spiati e ciò ci porterebbe a un livello di controllo, da parte dello Stato, paragonabile al celebre Big Brother descritto da George Orwell in 1984. Ma per qualcuno ci siamo già arrivati. Dopo l’11 settembre, l’allora presidente degli USA, George W. Bush, firmò il Patriot Act, una legge diventata famosa molti anni dopo, nel 2013, a seguito dello scandalo denominato Datagate. Fu allora che Edward Snowden, collaboratore della CIA e della NSA (le agenzie di sicurezza americane), fornì decine di migliaia di documenti al giornale The Guardian, da cui si evidenziava come tali agenzie di sicurezza accedessero a tutti i dati telefonici e telematici di chiunque, compresi capi di Stato quali Angela Merkel o aziende come Google. Ci furono anche, ovviamente, conseguenze politiche internazionali. Ma non è questo che c’interessa, quanto piuttosto il fatto che fu messo sotto accusa il Patriot Act, e molte associazioni di diritti civili ne reclamarono l’abolizione. Ho riportato questi due esempi come estremi delle due posizioni: nel primo la Apple si rifiuta di sbloccare i telefonini di due terroristi che hanno fatto una strage, nel secondo uno Stato intercetta praticamente tutti nel mondo. Ma allora qual è il limite della privacy?

Foto: Menandros Manousakis

Senza arrivare agli estremi citati, noi tutti nel quotidiano usiamo smartphone, social network e internet e, se non siamo sospettati di alcun reato particolarmente grave, riteniamo di aver diritto alla privacy. E, infatti, la legge italiana prevede l’uso delle intercettazioni telefoniche e telematiche da parte della polizia giudiziaria solo per alcuni reati gravi. Ma è il concetto di privacy che è cambiato nel tempo: prima dell’avvento del web si fermava alla vita privata della persona, mentre ora è esteso alle abitudini, alla situazione economica, allo stile di vita, arrivando perfino alla salute e alle relazioni personali. Quante volte sui giornali abbiamo letto il nome di qualcuno accusato di reati anche aberranti, come la pedofilia, e di cui vengono poi svelate le abitudini, le conversazioni, i nomi dei familiari e perfino dei figli. C’è una tale sete di gossip e voyerismo estremo, amplificata dai social network e da alcuni programmi televisivi, da arrivare al punto di far diventare mete di pellegrinaggio il luogo di un omicidio o la casa di un assassino. Ecco, in questi casi trovo che ci sia decisamente un eccesso. Stefano Rodotà, primo garante della privacy in Italia, in merito a quanto di sua competenza disse: “La libertà di sapere deve rispettare la privacy. Naturalmente, con variazioni che sono legate al contesto… Il problema è sempre considerare il contesto: l’interesse della persona, le modalità in cui la persona si presenta in pubblico; questa è la misura dell’aspettativa di privacy.” È ovvio che per i personaggi pubblici tale aspettativa si abbassi, ma anche loro hanno diritto al rispetto della privacy in caso, per esempio, di malattia. Così come è ovvio per un criminale immaginare di essere intercettato, ma anche in questo caso con dei limiti. Il Garante della privacy, con una sentenza del 15 gennaio 2020, in seguito a un ricorso contro un quotidiano online che aveva diffuso, in forma integrale, un avviso di conclusione delle indagini preliminari, ha stabilito due importanti principi: il primo è che “la pubblicazione dei dati identificativi di persone indagate non è preclusa dal nostro ordinamento e che, ove la testata si limiti a dare una notizia di interesse pubblico, come certamente è quella in esame, anche riportando i nominativi dei presunti responsabili, non viola i limiti del diritto di cronaca”. Il secondo è che “la diffusione integrale dell’avviso di conclusione delle indagini, nel quale accanto a ciascuno dei nomi degli avvocati indagati compaiono l’indirizzo dell’abitazione, il numero di telefono dello studio e, in alcuni casi, anche il numero di cellulare non è consentita, perché – afferma il Garante – tali dati sono eccedenti rispetto all’esigenza di informare su un fatto di interesse pubblico” e dunque esulano dal diritto di cronaca.

Torino, Piazza Castello – Foto: Giorgio Manusakis

Come si può notare è difficile, forse impossibile, trovare una soluzione unica che vada bene per ogni situazione. Appare, invece, evidente che ogni caso vada visto nel suo contesto al fine di trovare il giusto equilibrio tra giustizia e diritto alla privacy. Insomma, se la virtù è nell’equilibrio delle cose, come ritenevano uomini del calibro di Aristotele, Orazio, Ovidio e Cicerone, allora non vedo come potrei io smentire loro e una massima senza tempo: In medio stat virtus. Eppure qualche dubbio continuo ad averlo sul fatto che questo equilibrio esista davvero. Facciamo un paio di esempi: se andate sul sito dell’Agenzia delle Entrate potrete notare come ci siano tutti gli scontrini delle farmacie dove avete speso e, soprattutto, cosa avete comprato (oltre a cosa è scaricabile dalle tasse); di fatto, comunicando le vostre spese mediche per detrarle dalle tasse, state anche rendendo note le vostre patologie, cioè qualcosa di decisamente intimo. Restiamo in ambito monetario: la polizia giudiziaria, se vuole indagare sulle finanze di qualcuno, ha bisogno dell’autorizzazione di un giudice da presentare alle banche e agli altri enti perché, ovviamente, deve entrare nella sfera privata del cittadino indagato. Eppure, quegli stessi dati (conti bancari e postali, investimenti finanziari, beni mobili e immobili, etc.) vengono richiesti da qualsiasi patronato per rilasciarvi l’ISEE necessario anche solo per beneficiare di uno sconto sull’abbonamento dei bus, e a fornirli sarete proprio voi (a volte anche faticosamente), dando così il consenso affinché la vostra sfera privata sia nota a un numero di persone sempre maggiore. Si dirà che in questi ultimi due casi siete voi a concedere il consenso al fine di ricevere un beneficio e, sulla carta, è certamente così. Ma vi sembra ci sia equilibrio tra il difendere la privacy delle persone con apposite leggi e poi invaderla anche pesantemente per concedere dei benefici? Non sarò io a rispondere, perché ognuno di voi avrà la risposta che ritiene più valida, l’intento è solo, come sempre, quello di farvi riflettere.

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