Celebrazioni di San Gennaro – Foto: Vittorio Bianco
Nel calendario della Chiesa Cattolica il 19 settembre si ricorda il martirio di San Gennaro. Nonostante siano trascorsi molti secoli da questo evento, il particolare legame del popolo napoletano con il suo patrono, nel quale si mescolano fede e folklore, è ancora oggi fortissimo
Sin dall’infanzia un’aspirazione alla santità…
Alla luce di quanto riferisce Matilde Serao nel suo volume San Gennaro nella leggenda e nella vita, in cui la scrittrice e giornalista raccoglie numerosi dati provenienti da testi antichi, come gli Atti Vaticani, gli Atti Bolognesi e il Martirologio Romano, non è possibile stabilire con esattezza il luogo in cui sarebbe nato il futuro santo protettore di Napoli. Quel che è certo è che suo padre, un certo Stefano, senatore romano appartenente alla gens degli Ianuarii, decise con la sua famiglia di trasferirsi in quella che era chiamata nell’Urbe Campania felix. L’elemento su cui concordano tutte le fonti, invece, è la data della venuta al mondo del martire, coincidente con il mese di aprile del 272. Sin da piccolo Publius Faustus Ianuarius (questo sarebbe stato il nome completo del santo secondo la Serao) manifestò una grande fede cristiana che lo portava a digiunare nei periodi più importanti del calendario liturgico, come la Quaresima, e a compiere gesti di carità verso i poveri di Napoli, città nella quale avrebbe abitato, secondo la tradizione popolare, in una casa situata lungo via San Gregorio Armeno. Sempre nel centro antico partenopeo, nei pressi dell’Anticaglia, il santo avrebbe fatto costruire e gestito, insieme alla madre Teonoria, un ospedale per gli ammalati e i bisognosi.
La circostanza che portò al martirio
Divenuto sacerdote, Gennaro avrebbe ricevuto intorno al 302 la nomina a vescovo di Benevento, in un periodo molto difficile per la storia della Chiesa, segnato dalle feroci persecuzioni dell’imperatore Diocleziano. Nel 305, venuto a conoscenza dell’arresto di Sossio, diacono di Miseno, e dei suoi compagni Eutichete ed Acuzio, il santo accorse a Pozzuoli, luogo in cui furono incarcerati, per dare loro conforto. Fermato dai soldati di Timoteo, nuovo governatore della Campania subentrato a Draconzio, e condannato a morte per aver rifiutato la conversione al paganesimo, Gennaro, insieme ai suoi compagni beneventani, Festo e Desiderio, venne gettato in una fornace ardente. Da qui, però, il vescovo e i suoi amici sarebbero usciti miracolosamente indenni. A quel punto, Timoteo avrebbe fatto legare i condannati ad un carro, ordinando loro di condurlo sino a Pozzuoli. Giunti nell’anfiteatro della città, sarebbero stati esposti alla furia di un gruppo di leoni ma Gennaro, con un segno di croce, avrebbe ammansito le belve feroci (tale episodio è immortalato in un celebre quadro di Artemisia Gentileschi presso la Cattedrale ubicata nel Rione Terra). Reso ancor più furibondo da tale evento, Timoteo decretò che i condannati fossero decapitati nel sito di Forum Vulcanii, corrispondente alla Solfatara. A mezzogiorno del 19 settembre del 305, a 33 anni, la stessa età in cui morì Cristo, Gennaro ed i suoi amici furono crudelmente uccisi.
La vicenda del sangue, da Eusebia alla prima liquefazione
Secondo un aneddoto popolare, al momento della morte una donna di nome Eusebia avrebbe raccolto in due ampolle di vetro parte del sangue fuoriuscito dal collo del vescovo beneventano. Il corpo di Gennaro venne tumulato in un fondo, chiamato agro Marciano, dal quale fu traslato successivamente nelle Catacombe di Capodimonte. Secondo una tradizione, sarebbe stato il vescovo Giovanni I, nel V secolo d.C., a decretare questo spostamento. Secondo, invece, un’altra notizia riportata dallo storico Francesco Ceva Grimaldi nel 1857, fu il vescovo Zosimo, intorno al 341, a compiere quest’atto che sarebbe stato commemorato poi ogni anno con una processione da effettuarsi nella data del martirio del santo. Sempre secondo il Ceva Grimaldi, durante il corteo del 19 settembre 389, dopo alcuni decenni di misterioso oblio, in occasione di una sosta presso il sito di Antignano sarebbero riapparse le ampolle del sangue il quale, essendosi indurito col tempo, una volta accostato ai resti del cranio si sarebbe prodigiosamente sciolto. A tal proposito, è importante evidenziare come questa notizia riportata dall’autore ottocentesco non sia sostenuta da diverse altre fonti che, invece, affermano che la prima liquefazione si sarebbe verificata soltanto nell’agosto del 1389.
Celebrazioni di San Gennaro, il momento dello scioglimento del sangue – Foto: Vittorio Bianco
Se il sangue ed il cranio di Gennaro sono sempre rimasti a Napoli, le sue ossa ed altre sue reliquie, invece, furono interessate da vari spostamenti. Rubate nel IX secolo dal principe longobardo Sicone, furono portate da quest’ultimo nella Cattedrale di Benevento. Da qui, però, furono prese da Guglielmo il Malo e traslate nell’Abbazia di Montevergine, finendo tuttavia in una sorta di dimenticatoio in virtù della maggiore devozione qui rivolta dai pellegrini verso l’icona bizantina della “Mamma Schiavona”. Nel 1497 il Cardinale Oliviero Carafa riportò solennemente le ossa del martire a Napoli collocandole nella Cappella del Succorpo, cripta situata al di sotto del presbiterio del Duomo partenopeo, progettata, secondo alcuni studiosi, dal grande architetto Donato Bramante.
La Cappella del Tesoro e le sue straordinarie opere
Il legame del santo con la città di Napoli andò consolidandosi sempre più con il passare dei secoli. A dimostrazione di ciò, si può ricordare la costruzione della Cappella del Tesoro come ringraziamento nei suoi riguardi per aver posto fine a vari eventi nefasti accaduti tra il 1525 ed il 1527, come una pestilenza, alcuni terremoti ed un’eruzione del Vesuvio. Tuttavia, nonostante la stipula di un vero e proprio atto notarile, i lavori per la sua realizzazione cominciarono solo intorno al 1608 per poi concludersi circa 40 anni dopo. Tra i motivi di questo ritardo vi furono le controversie sorte per la scelta dei pittori a cui affidare la decorazione della Cappella. A spuntarla, tra i numerosi aspiranti a tale prestigiosissimo incarico, fu il bolognese Domenico Zampieri, detto Domenichino. Questi, però, non riuscì a terminare il lavoro a causa della morte improvvisa avvenuta il 6 aprile 1641. Secondo le malelingue dell’epoca, l’artista sarebbe stato avvelenato da un gruppo di colleghi napoletani, riuniti nella cosiddetta cabala, i quali in questo modo avrebbero vendicato la loro inaspettata esclusione da parte della Deputazione, l’organo che gestisce tuttora la Cappella e che all’epoca era formato dai rappresentanti degli antichi quartieri della città, chiamati sedili. Se la cupola fu affrescata da un grande specialista come l’emiliano Giovanni Lanfranco, gli ultimi due quadri relativi al ciclo agiografico di Gennaro furono eseguiti da Massimo Stanzione e da Jusepe de Ribera. Il primo realizzò il Miracolo dell’Ossessa, inizialmente collocato al di sopra di un altare situato presso uno dei pilastri della struttura e poi trasferito nell’annessa sagrestia, dove tuttora è conservato. Il secondo, invece, eseguì il San Gennaro esce illeso dalla fornace, sublime capolavoro ammirabile ancora oggi nel transetto destro della Cappella.
La collana di San Gennaro – Foto: Giorgio Manusakis
Nel sangue e nel Tesoro l’unicità del culto di San Gennaro
Gli elementi che ancora oggi caratterizzano il culto verso San Gennaro, rendendolo forse unico al mondo, sono due. Il primo è indubbiamente il miracolo della liquefazione del sangue. Su questo fenomeno, sono ancora in corso studi volti a capirne cause e dinamiche. Senza qui prendere una specifica posizione circa l’autenticità del “prodigio”, termine con cui la Chiesa cattolica considera il fenomeno allo stato attuale (il prodigio, a differenza del miracolo, non si verifica sempre per volontà di Dio), si rammenta che sono tre le date in cui l’evento è atteso a Napoli ed in tutto il mondo. Oltre al 19 settembre, ricorrenza del martirio del santo, le altre giornate dell’anno sono il sabato che precede la prima domenica di maggio, allorquando si commemora la traslazione delle reliquie dall’Agro Marciano a Capodimonte, ed il 16 dicembre, in cui si ricorda la protezione rivolta dal martire sulla città nel 1631 in occasione di un’eruzione del Vesuvio. Nella fede popolare il mancato scioglimento del sangue è presagio di eventi negativi. Ad esempio, secondo i più ferventi devoti, l’assenza del miracolo negli anni 1939 e 1980 andrebbe vista come segno premonitore, rispettivamente, dell’entrata dell’Italia nella Seconda guerra mondiale e del sisma dell’Irpinia.
Il secondo elemento è senza dubbio il ricco Tesoro appartenente al Santo, custodito oggi nell’ambito di un vero e proprio museo che si articola tra la sagrestia ed alcuni ambienti annessi alla stupenda Cappella del Duomo. Il suo valore, secondo alcuni esperti di arte e gioielleria, sarebbe addirittura superiore a quello della famiglia reale di Gran Bretagna. Tra i principali oggetti esposti si può ricordare la splendida Mitra, commissionata dalla Deputazione nel 1712 all’orafo Matteo Treglia, contenente più di 3600 pietre preziose, come diamanti, smeraldi e rubini. L’opera fu concepita per essere posizionata sul busto-reliquiario argenteo di epoca angioina che custodisce i resti del cranio del martire e che tuttora è esposto all’interno della Cappella. Un altro pezzo di pregevole fattura è la collana di San Gennaro, in cui, al primo gioiello eseguito nel Seicento da Michele Dato, si sono aggiunti sino ai primi decenni del Novecento ulteriori pietre preziose donate da papi, re e notabili. Di grandissimo valore sono, infine, gli ex-voto di alcuni regnanti vissuti tra Ottocento e Novecento, come, ad esempio, un calice dorato di Francesco II di Borbone, ultimo sovrano delle Due Sicilie; una croce episcopale aurea del 1878, con diamanti e smeraldi, donata dai coniugi Umberto e Margherita di Savoia come ringraziamento per uno scampato attentato, ed una pisside in oro, malachite e corallo fatta eseguire da Umberto II nel 1931, prima ancora di diventare ultimo re d’Italia, presso la manifattura Ascione di Torre del Greco.
La mitra di San Gennaro – Foto: Giorgio Manusakis
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