Libri antichi – Foto: Giorgio Manusakis

Sembra lecito immaginare che la narrazione, al suo esordio nella storia, si collochi al secondo livello della piramide di Maslow tra i bisogni di sicurezza, subito dopo i bisogni fisiologici (respiro, cibo, acqua, sonno, ecc). L’uomo delle caverne, che di giorno disegnava alle pareti, al crepuscolo con il suo piccolo gruppo tribale allontanava, attorno al fuoco, la paura ancestrale della morte e dell’essere divorato attraverso la condivisione di storie che lo calmavano, inducendo il sonno.

Allo stesso modo, l’annichilimento provato di fronte al cadavere di un membro della tribù poteva essere superato, prima della comparsa delle religioni e indipendentemente da esse, soltanto se di quel cadavere si poteva narrare una storia che lo riportasse in vita attraverso la memoria.

Potremmo spingerci ad affermare che sia stata la morte la progenitrice della narrazione, nel senso moderno dello story-telling, e che, sullo stesso albero genealogico ma in opposizione ad essa, sia collocato l’anelito alla permanenza.

E così fin dal suo apparire la narrazione si pone al margine, tra la vita e la morte e poi a ogni successivo margine, in ogni confine che all’uomo e alla donna faccia paura attraversare.

In psichiatria lo stato conclamato della follia è quello in cui il paziente non ha più capacità di narrare la propria esistenza, si trova di fronte alla perdita assoluta del senso. La narrazione, dunque, è indice di equilibro mentale, equilibrio ardito e instabile tra le angosce profonde della morte e la volontà di dominarle con forze propulsive e costruttive: la lotta tra eros e thanatos.

La narrazione si pone al margine anche in contesti meno estremi: in psicoterapia si impara come una diversa costruzione narrativa del proprio vissuto, in grado di riorganizzare il collegamento tra gli eventi alla ricerca di risvolti positivi o perlomeno consolatori, possa determinare il miglioramento delle condizioni generali del paziente. Questa acquisizione spinge molti psicoterapeuti a consigliare la tenuta di un diario o a indicare la scrittura creativa come strumento di “guarigione” dal mal di vivere.

La narrazione è altresì essenziale al pensiero critico. Il racconto dei fatti passati consente la costruzione di un pensiero storico e, a quanto pare, l’evitamento del ripetersi di tragedie già note.

In epoche tumultuose di cambiamenti, veri o gattopardeschi, la narrazione è fortemente invocata al margine. Laddove gli slogan confondono le idee, le acque e i valori, la narrazione sistematica, programmatica ed estesa, recupera la significatività del messaggio, pone un argine al caos, recupera la lezione della storia e impedisce la dissoluzione dei risultati acquisiti.

Oggi sul narratore, sullo scrittore, incombe un peso di responsabilità enorme: l’urgenza improcrastinabile di ricostruzione del senso affinché la società, già non più liquida ma quasi evanescente, possa ritrovare nel romanzo il valore della ricerca del senso.

Ogni romanzo crea un senso nell’attimo stesso in cui, intervenendo come cesoia che ritaglia una storia precisa nel fluire degli eventi, disegna una relazione tra un prima e un dopo, racconta un temporaneo lieto fine – ogni lieto fine è temporaneo, il principe azzurro e la principessa alla fine muoiono -, oppure una temporanea disfatta – quello che è tragico per il singolo può essere salvifico per la nazione, il pianeta, la galassia: la madre di Hitler potrebbe aver abortito con grande dolore momentaneo.

La lettura del romanzo induce a riflettere sulle conseguenze delle azioni, sulle relazioni fra le cose, sulle trasformazioni della vita che non è soltanto qui è ora, ma un traghettamento dall’irrimediabile ieri al modificabile domani attraverso un oggi consapevole.

Il romanzo può dire ciò che in altri ambiti viene imbavagliato, è in grado di ricucire le coscienze strappate, restituire dignità alle storie umane nascoste sotto ai tappeti degli slogan (disgustosi surrogati delle vecchie, forse oltranziste ma almeno più complesse, ideologie), spingersi nei luoghi che la coscienza del carpe diem e dell’indifferenza rifiuta.

In ultima analisi, il romanzo consente il recupero della consapevolezza su cosa sia una esistenza umana: non un caotico fluire di eventi tra cui ricercare affannosamente l’ora lieta per un piacere sempre più effimero e artefatto, bensì l’unico spazio che ci sia concesso per realizzare qualcosa di buono.

Il romanzo, insomma, è baluardo contro il pensiero involuto, qualunquista, frammentario, incauto, ignorante, indifferente e criminale. Il romanzo è l’estrema difesa dalla catastrofe che ancora rischia di divorarci, perché le bestie ci sono sempre e noi rischiamo di ritrovarci soli ad affrontarle senza la tribù, il fuoco e le storie.

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